Il termine infibulazione non si trova nelle enciclopedie di storia delle religioni. Bisogna cercare nei testi di antropologia culturale, anche se poi interviene anche qualche rito religioso, qualche preghiera e benedizione a coronare l’operazione chirurgica di riduzione, fino alla quasi cancellazione, dell’organo sessuale femminile. La pratica, in diversi modi, fino alla radicale chiusura dell’apertura sessuale (un buco piccolo in cui entri solo un fiammifero nella infibulazione detta “faraonica”), rappresenta una pratica tradizionale che vanta un’antichità millenaria, essendo presente già in Egitto nell’epoca delle Piramidi. Qualcuno ipotizza che quando si racconta nell’Esodo che le donne ebree mettevano al mondo i figli senza l’aiuto delle levatrici ciò avvenisse perché le donne ebree non erano infibulate. Questa operazione, che interessa tuttora, secondo calcoli affidabili, 140 milioni di donne, rende più difficile e doloroso il rapporto sessuale e anche il parto e pertanto sono resi motivi di merito per la donna che trae dal suo sacrificarsi a beneficio del marito e della prole stima, onore, e favori. Il rito che viene fatto sul corpo della bambina è accompagnato in alcune tradizioni ad un vero pre-matrimonio, con il velo della sposa, auguri e regali. Difficile per un occidentale capire. Ma lo spessore della cultura che sta alla base di questa pratica è incalcolabile, componendosi di senso di difesa dalla aggressione del maschio e dalla tentazione di cedere alle sue voglie, la concezione che la donna debba appartenere solo a suo marito, la bellezza del corpo se la genitalità è arginata e quasi annullata nella sua esteriorità, l’importanza che la bambina acquista agli occhi della sua comunità (rito di passaggio e di appartenenza al gruppo sociale, come la circoncisione maschile). Ciò rende desiderabile da parte delle donne essere infibulate, in modo da non essere considerate “cristiane o prostitute”. Questi i motivi che hanno spinto il ginecologo somalo Omar Abdulkamir, che opera presso l’ospedale Careggi di Firenze, a proporre una specie di “infibulazione dolce”, consistente in una iniezione che non si capisce bene quali effetti produca, ritenendo che non si possa sul momento pensare realisticamente ad una cessazione della brutale pratica tradizionale. Egli ha preso a prestito la filosofia della “Riduzione del danno”, che viene applicata nelle nostre società ad altre forme inaccettabili di comportamento, tollerate e mitigate, appunto, riducendo le conseguenze dannose per l’individuo. Cosa dire? Non c’è dubbio che non si debba far carico tout court all’Islàm di questa turpe operazione di mutilazione fisica del corpo femminile, che in molti casi viene ripetuta dopo ogni parto. Si può dire forse che l’educazione e la formazione religiosa islamica non ha fatto nulla per estirparla, in quanto probabilmente considerata, almeno lontanamente e tacitamente, in linea con la sottovalutazione della donna come persona. Intanto sta avvenendo in questo periodo di storia il contatto e la “contaminazione” tra diverse culture e forme di vita, che consente di mettere in luce le piaghe un tempo nascoste sotto la coltre del rispetto delle differenze culturali e l’ipocrita affermazione dell’identico valore di ognuna di esse. Il dialogo tra i popoli e il confronto tra le loro diverse visioni del mondo e tradizioni comportamentali, comprese quelle religiose, possono servire per arricchire e purificare le coscienze e far maturare la responsabilità di difendere gli esseri umani, uomini e donne, bambini e bambine, nell’intangibilità della loro integrità fisica e spirituale. Il superamento non traumatico della brutale pratica chirurgica che vada in certo accordo con la tradizione, in via provvisoria, potrebbe essere quello di “simbolizzare” il fatto, come avviene in Ghana, dove si fa una festa puramente folkloristica e rituale per segnare il passaggio delle bambine alla maturità (rito di passaggio) senza alcun intervento chirurgico, né traumatico né dolce.
L’infibulazione non si giustifica religiosamente. Resta ed è violenza sulle donne perciò “no” alla proposta del medico somalo di Careggi (Fi) che ha proposto “l’infibulazone dolce”
Barbara tradizione anche se 'dolce'
AUTORE:
Elio Bromuri