È stata una mia piccola carognata per evitare di partecipare all’annuale Assemblea della diocesi di Gubbio? È stata un’ulteriore snobbatura degli inviti di un Vescovo che, dal giorno che ha iniziato il suo ministero fra noi, ha progressivamente attenuato la sua fiducia nei miei confronti, mentre i miei circuiti menai si sovraccaricavano di lavoro e le caviglie somigliavano sempre più a cipolle lessate?
Certo, una punta di dissenso nei confronti di come vengono impostate e condotte quasi tutte le Assemblee delle diocesi italiane in me c’è, e si vede. A me, tamquam aborto, pare che l’Assemblea dovrebbe servire a dare la parola al popolo di Dio per tastarne il polso, e ad ascoltarne le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce, per vedere se sono quelle le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto, e di tutti coloro che soffrono. Ma il mio parere conta come il due di spade quando briscola è bastoni, ed è giusto che sia così.
Non c’ero. Ero a Urbino con un gruppetto di alunni del Seminario Romano che dicemmo messa nel 1961 (!), ospiti (immaginate!) del carissimo arcivescovo emerito della città del Duca, Francesco Marinelli; uomo e prete autentico come lo fu il suo predecessore, Ugo Donato Bianchi. Ha qualche acciacco di troppo, don Francesco, ma io l’ho abbracciato e ho scherzato con lui proprio come quando c’incontrammo per la prima volta 58 (!) anni fa.
Bello, bello! C’era anche don Piero Vergari, colui che, liberando col suo sofferto silenzio pesci ben più grossi, s’è caricato la croce della responsabilità in merito alla vicenda che portò Donatino De Pedis ad avere in Sant’Apollinare una sepoltura degna della sua inimitabile carriera di pistolero.
E con don Rosario Colantonio, che si è (quasi) santificato lavorando per 46 anni al Tribunale ecclesiastico di Roma, fino a diventarne presidente, fino a maturare la dolente convinzione che sarà tutt’altro che facile che la linea pastorale di Papa Francesco risulti vincente nel tempo. E con don Angelo Favero, parroco di Mestre dopo i 70 anni, uno dei meglio riusciti della nostra covata, lui che ha fatto il preside al liceo Franchetti per un paio di secoli, se n’è andato in pensione con un paio di anni di anticipo perché sperava che due anni bastassero per dedicargli una statua equestre all’ingresso dell’istituto. Non digerisce i Patriarchi scelti col metodo del pari o caffo, ma è davvero un angelo, e scrive settimanalmente degli splendidi messaggi.
No, non è stata una carognata, la mia assenza dall’Assemblea diocesana. Sull’altro piatto c’erano tre cannoli siciliani sognati da un diabetico che da 15 anni ignora il sapore del dolce.