La vocazione di Levi è raccontata nel Vangelo di oggi e negli altri due Vangeli sinottici, Marco e Luca (Mc 2,14; Lc 5,28). In questi il racconto è sostanzialmente uguale, anche se solo il Primo Vangelo ci dice l’altro nome di colui che, seduto al banco delle imposte, viene chiamato: Matteo. Abbiamo uno schema che percorre i vangeli ogni volta che si tratta di vocazioni (vedi anche la chiamata di Pietro e del fratello in Mt 4,18-22): 1) Gesù passa accanto (par-ago); 2) vede qualcuno, di cui si dice il nome, 3) questi è assorto nei suoi impegni quotidiani di lavoro; 4) Gesù lo chiama; 5) e questi subito risponde e segue il Maestro.
Ci sono ovviamente dei precedenti nel Primo Testamento; così era accaduto per Eliseo chiamato da Elia: “Partito di lì, Elia incontrò Eliseo figlio di Safàt. […] Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. […] Elia disse: ‘Va’ e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te’. Eliseo […] si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio” (1 Re 19-21). La chiamata di Dio è irresistibile, come quella profetica di Amos (“Ruggisce il leone: chi mai non trema? Il Signore Dio ha parlato: chi può non profetare?”; Am 3,8), e ha luogo nella situazione esistenziale di chi è chiamato. Matteo è fulminato – come chiunque incontri davvero il Cristo – dalla luce, e non se ne può più staccare. Matteo è uno degli esattori delle tasse, cioè un dipendente del governo d’occupazione romano.
I pubblicani erano presenti in tutto l’impero dove si raccoglievano i tributi: ancora all’epoca di Traiano publicanus era il termine latino normalmente adoperato per designarli. La loro cattiva fama era spesso peggiorata dal fatto che alcuni ebrei avevano acquistato dai romani la concessione per l’esazione delle tasse, ed erano soliti ad “abusi e sfrenatezze. Alcuni avidi pubblicani traevano arbitrariamente vantaggio dall’indeterminatezza con cui venivano stabilite le tasse” (Gnilka). Ai pubblicani, secondo il diritto ebraico, erano stati tolti i diritti civili; venivano poi comunemente considerati traditori dei correligionari o ladri. A Gesù non importa in quale situazione si trovi chi lo incontra: non è certo il peccato a fermarlo, anzi: è questa la ragione per cui egli, come un medico che si reca a visitare i malati, ama mangiare “insieme ai pubblicani e ai peccatori” (Mt 9,11). È a questo punto che il Primo Vangelo, e solo questo, aggiunge una citazione a commento della risposta di Gesù: “Andate dunque e imparate che cosa significhi ‘Misericordia io voglio e non sacrificio'”.
Questa frase dal profeta Osea, si trova anche in un altro luogo in Matteo, quando Gesù risponde ai farisei che accusano i suoi discepoli di non rispettare il sabato (Mt 12,7). Da una parte, nel primo episodio, si tratta dello stare a mensa con uomini impuri (peccatori e pubblicani); dall’altra, si tratta del sabato e delle prescrizioni relative alla sua custodia: in tutte e due le situazioni, il problema è il rispetto della Legge. Ora, Gesù in Mt 12,5-6 risponde che “nella Legge, nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa”. Ecco il centro delle parole di Gesù e il motivo per cui cita Osea: la misericordia, il perdono che egli è venuto a dare a tutti, anche ai peccatori e ai pubblicani, è più grande dei sacrifici del Tempio di Gerusalemme ed è quello che conta di più per la Legge di Dio. I sacrifici nel Tempio non sono ormai più possibili quando viene composto il Vangelo di Matteo.
Forse ormai da quasi vent’anni il secondo Tempio è stato distrutto: anche per l’ebraismo è in atto uno straordinario fenomeno di ripensamento. Yohanan ben Zakkai, uno dei primi rabbini, fugge da Gerusalemme quando Tito sta per mettere a fuoco la capitale, fonda la scuola rabbinica di Jamnia e diventa il personaggio chiave della riorganizzazione dell’ebraismo dopo il dramma della guerra giudaica. Di lui si scrive nei testi rabbinici: “Un giorno che Rabban Yohanan ben Zakkai usciva da Gerusalemme, Rabbi Jehoshua lo seguiva e osservava il tempio in rovina. ‘Guai a noi’ – disse Rabbi Jehoshua – ‘ poiché è stato distrutto il luogo in cui venivano espiate le iniquità di Israele!’. Gli rispose: ‘Figlio mio, non ti dispiaccia questo. Noi abbiamo uno strumento di espiazione altrettanto efficace’. ‘E qual è?’. ‘Sono le opere di misericordia, come sta scritto: Misericordia io voglio e non sacrificio (Os 6,6)” (Avot de-Rabbi Natan; da A. Mello, Ebraismo, Brescia 2000).
Anche Gesù – secondo il Vangelo di Matteo – cita Osea. Questo dettaglio fa pensare a quanto “il Matteo giudeo-cristiano sia vicino agli scribi dei farisei più che a qualsiasi altro gruppo giudaico. I contatti tra Matteo e Yohanan ben Zakkai sono stati sempre sottolineati, e sono impressionanti. Come Matteo, anche Yohanan (e in questo non è un fariseo) ha scelto di mettere la misericordia e la benevolenza prima del sacrificio e delle regole di purità. Os 6,6 era un testo centrale per tutti e due. Ambedue non vedono l’abolizione delle leggi rituali, ma queste non sono un tema centrale. Ambedue cercano la regola delle regole” (U. Luz, Das Evangelium nach Matthèus. 1, Zèrich 1985).
Ecco che si svela in questo contatto tra la tradizione rabbinica e il Primo Vangelo una caratteristica del suo Autore: questi – più che essere un ex-esattore delle tasse – è certamente un ebreo che conosceva bene la Legge, e che ha incontrato il messaggio di Gesù: Matteo, secondo le parole del Maestro, è come uno scriba che, “divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).