Il 30 ottobre del 1977 è domenica, una domenica plumbea. La pioggia battente da ore continua incessante, senza sosta. Allo stadio comunale di Pian di Massiano arriva la Juventus, capolista della serie A insieme ai Grifoni. È il giorno più importante della storia del Perugia. Alle 16.30 però, al triplice fischio finale, regna un’atmosfera strana sugli spalti, solo il rumore della pioggia sui quarantamila ombrelli si sostituisce al silenzio inusuale e ovattato. Quelle mani nei capelli dei giocatori, quella corsa troppo veloce della barella in mezzo alle pozzanghere lasciano inquieti i perugini che abbandonano lo stadio. Tra poco la voce roca di Sandro Ciotti darà l’annuncio alla radio, alle 16.30 Renato Curi è morto! “Il cadavere che giace supino sul tavolo della sala settoria, indossa maglietta rossa con righe bianche e rosse al collo e ai polsi, recante sul retro il numero 8 di colore bianco e sul davanti, a sinistra, l’immagine del grifo, canottiera di cotone con maniche corte…” recita lo scarno ma significativo comunicato dei medici.
Sono passati 35 anni ma il ricordo di quel giorno è vivo ed emozionante per chi c’era e per chi ha sentito raccontare questa storia. Oggi come allora piove incessantemente sullo stadio Curi, c’è Perugia- Carrarese di lega Pro, e oggi come allora il suo nome è scandito da migliaia di persone di ogni generazione. Cori, applausi e la Messa allo stadio la mattina non sono rituali che si ripetono per abitudine da tanti anni ma sono segni di un legame intenso sempre vivo. Renato è nel cuore di tutti i tifosi del grifo nell’epoca dell’”usa e getta” che brucia velocemente i suoi miti. Lui resta e basta guardare i suoi occhi nelle foto d’epoca ormai sgualcite per capire il perché. Il suo sguardo parla di qualcosa di diverso e non rappresenta solo un semplice giocatore che è morto con la maglia rossa sul campo.
Renato era prima di tutto un ragazzo di 24 anni che inseguiva i suoi sogni; un bravo ragazzo, mai una parola fuori posto, mai un atteggiamento oltre le righe, tanto talento e una vita normale fatta di una moglie, una figlia e un altro figlio in arrivo, e tanta gavetta per emergere dalla serie C alla A, quel tipo di “giocatore” che riconosci “dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia” come canta De Gregori. Ma soprattutto Renato rimane il simbolo di un calcio che non c’è più, il calcio genuino fatto di olio canforato e di goal immaginati alla radio, un calcio fatto di passione e pochi soldi dove anche una provinciale emergente poteva battere gli squadroni, un calcio fatto di onestà ed entusiasmo.
Forse è per questo che il suo cuore non si è fermato alle 15.34 di quel 30 ottobre ma batte ancora in quello dei tifosi del Grifo. Forse è per questo che i ragazzi della “Nord” vorrebbero che nessuno indossasse mai più quella maglia rossa numero 8.