Sulla riforma elettorale si procede a strappi. Le ultime notizie segnalano una significativa svolta, nella prospettiva – sembra – del bipartitismo. O più esattamente, una sorta di bipartitismo imperfetto. Sì come quello oggetto di una famosa definizione (del politologo Giorgio Galli) vecchia del secolo scorso. Cercava di cogliere la peculiarità italiana degli anni Sessanta, un quadro bloccato, con un partito grande sempre al governo, e un altro più piccolo, sempre all’opposizione. Si chiamavano Democrazia cristiana e Partito comunista. Sembra che, per la legge in lunga e faticosa gestazione, Renzi voglia proporre – con l’accordo di Berlusconi – il premio di maggioranza al partito e non alla coalizione, rivedendo il testo votato alla Camera il 12 marzo, così come il difficile accordo sulle soglie di sbarramento, che sembra anch’esso tornare in discussione.
Converrebbe al premier, che si è posto (esplicitamente e con l’ormai nota sicurezza) l’obiettivo di altri due mandati di legislatura, e forse conviene allo stesso Berlusconi, alla ricerca di tutele personali e patrimoniali, oltre che di spazio politico ancillare. Può giovare financo all’appannato Grillo. Di qui la prospettiva di un bipartitismo imperfetto, con un partito a esclusiva vocazione di governo, e altri che presidiano spezzoni di opposizione. Il “maggioritario all’italiana” è da sempre un bricolage in cui la forma prevaleva sulla sostanza, i contenitori sui contenuti, le sigle sulla realtà politica. In realtà, le vicende recenti hanno dimostrato che per vincere le elezioni non servono i premi, ma la capacità politica, come alle europee. Paradossalmente, allo stato attuale il Presidente del Consiglio potrebbe vincere anche con un buon proporzionale con preferenze: in astratto, certamente il sistema più rappresentativo, quello che la Corte costituzionale ha provvisoriamente fissato nella famosa sentenza n. 1 del 2014 e con cui andremmo a votare in caso di elezioni anticipate. Di queste si parla ogni tanto, per smentirle, ma anche per agitarle come spauracchio di fronte a un Parlamento disorientato, cioè, in concreto, a diverse centinaia di parlamentari che non hanno assolutamente alcuna certezza del proprio futuro politico, tanto nel Pd che negli altri schieramenti.
Così il dibattito a strappi sulla legge elettorale rafforza la presa del premier sul suo partito, che vuole trasformare per condannarlo a vincere, ma anche sul più ampio sistema politico, nei confronti del quale si presenta ed emerge senza alternative. Fare bene le regole del gioco – quelle elettorali, e a maggior ragione quelle costituzionali – è un’arte. Bisogna guardare oltre il breve termine e ben combinare le ragioni della governabilità con quelle del pluralismo. Perché, tanto nel proporzionale che nel maggioritario in tutte le sue molteplici sfaccettature, ciò che conta e che permette formare Governi solidi, durevoli e capaci di realizzare, non sono (come ben abbiamo visto) solo i numeri.