Il principale tema all’ordine del giorno dell’ultima assemblea della Cei è stata la preparazione al prossimo Sinodo dei vescovi, che riguarderà i giovani, nella duplice prospettiva della proposta della fede e del discernimento vocazionale. L’intenso e prolungato dibattito ha messo in luce da una parte l’interesse per l’appuntamento e il relativo cammino di avvicinamento; dall’altra ha evidenziato un rischio, sottolineato più volte anche dal Papa: quello di risolvere la questione tra “addetti ai lavori”. Sul versante dei giovani, infatti, esiste il pericolo di ascoltare solo i “vicini”, quelli che frequentano percorsi e ambienti ecclesiali e che rappresentano, quantitativamente e qualitativamente, una minoranza dell’universo giovanile. Sul versante ecclesiale, invece, appare preoccupante la prospettiva di una riflessione che coinvolga solamente gli organismi della pastorale giovanile, gli oratori, le associazioni educative… senza un reale interesse e un fattivo impegno della comunità cristiana tutta.
Entrambe le dinamiche sarebbero distruttive. Ciò che sta venendo meno, infatti – e non solo in campo cattolico – è quella relazione tra le generazioni che consente ai giovani di diventare adulti e alle comunità di vincere la sclerosi, rinnovandosi continuamente. Le nuove generazioni hanno bisogno di chi li precede, se vogliono crescere: la fede e la vocazione nessuno se le dà da sé, ma le si riceve nell’incontro – a volte anche nello scontro – con l’adulto e con la propria comunità. La frattura intergenerazionale, aggravata ai giorni nostri dalla velocità dei cambiamenti e dall’influenza della tecnologia sulle relazioni, rende sempre più difficile acquisire ragioni di vita e di speranza, diventare protagonisti della propria storia, orientare il mondo al cambiamento e prendere decisioni definitive. Blue whale, il “gioco del suicidio” diffuso tra gli adolescenti, come l’aumento dei Neet tra le fasce più alte, sono sintomi evidenti di un disagio crescente, figlio dell’orizzontalismo e della conseguente desertificazione educativa.
Dall’altra parte, la Chiesa ha bisogno dei giovani, non tanto per scongiurare l’estinzione di intere parrocchie o presbitèri, ma per essere in grado di annunciare e testimoniare il Vangelo in modo comprensibile ed efficace. L’Ecclesia semper reformanda non potrebbe cambiare stili di vita e di annuncio, in obbedienza agli inediti disegni dello Spirito, senza il pensiero e le energie delle nuove generazioni.
La vera sfida del Sinodo e del suo percorso preparatorio è quindi quella di riproporre l’incontro di tutta la Chiesa con tutti i giovani. L’intera comunità è il soggetto che deve interrogarsi, con l’ausilio del documento preparatorio, sul proprio rapporto con le nuove generazioni, sulle energie, le idee e gli spazi di protagonismo che è disposta a investire; su ciò che di più caro ha dell’esperienza cristiana da proporre loro; sulle inerzie e sulle paure che rendono il rapporto con i giovani ancora più faticoso. Senza comode deleghe ad alcuno, fossero anche specialisti del ramo. Tutti i giovani vanno ascoltati, con la pazienza di andare a cercare e stare a sentire anche chi è più lontano e ha magari da dire cose spiacevoli. Di interpellare anche i giovani del disagio conclamato, delle seconde generazioni di migranti, del “tunnel del divertimento”, della rassegnazione sociale e del caos affettivo. Questa operazione è più complessa della prima, dove tutto sommato si gioca in casa; la sfida dell’ascolto è davvero difficile da affrontare. Implica anche il coinvolgimento di persone – “bravi ragazzi” in testa – capaci di fare da ponte, quasi da interpreti, tra due mondi distanti. Una sfida, appunto, che è anche una grande opportunità.