La crisi economica procede inesorabile, allargando giorno dopo giorno l’area di crisi. Le previsioni degli economisti sulla fine della crisi, inizialmente improntate all’ottimismo, si fanno sempre più caute; nessuno più si sbilancia parlando di mesi, ma sempre più ricorre la generica indicazione di una crisi lunga. Abituati dalle crisi congiunturali del passato alla capacità “auto-riparatoria” dell’economia, coadiuvata da misure di carattere finanziario, si sollecita un generico rilancio dei consumi, sollecito vissuto con impotente sconcerto da popolazioni in crescente difficoltà. Anche del recente G8 svoltosi in Giappone, dietro “la liturgia” abituale di strette di mano, sorrisi di circostanza, con immancabile foto di gruppo, ciò che resta è un silenzio agghiacciante sui gravissimi problemi evocati: dalla crisi economica ai cambiamenti climatici, fino alla ripresa della fame nel mondo.
La crisi di un sistema
Non una analisi, né un tentativo di comprendere la novità di una crisi che appare sempre meno congiunturale e comincia a mostrare sullo sfondo lo spettro di una crisi strutturale in cui si spiegano, come elementi correlati e non disgiunti, le crisi economiche, le crisi ambientali e le crisi umanitarie, come previsto nel recente aggiornamento dello studio del Club di Roma sui limiti della crescita. Oggi stiamo assistendo ad un rallentamento della produzione industriale, la cui crescita in alcuni paesi, fra cui l’Italia, è ormai prossima allo zero; stiamo esattamente al culmine di una curva che comincerà una rapida discesa a partire dal 2015. La crisi di oggi, secondo molti analisti, è stata scatenata da una eccessiva crescita della domanda di petrolio, che ha fatto schizzare in alto il prezzo di questa risorsa, che ha probabilmente già iniziato il suo declino quantitativo, provocando, in una economia dipendente da esso in tutti settori, un effetto a catena sui costi di tutti beni. Se le cose stanno così, la ricetta proposta di “rilanciare i consumi”, non può che peggiorare ulteriormente la situazione.
Ma non volendo riconoscere che la crescita incontrollata della produzione industriale nei paesi ricchi produce ormai molti più danni che benefici, si cerca disperatamente una risorsa che possa sostituire il petrolio. Potrebbe essere il carbone? Forse per oltre un secolo la produzione industriale potrebbe continuare a crescere, ma, dal momento che le emissioni prodotte aggraverebbero la crisi climatica, essa trascinerebbe in tal caso la caduta nella produzione di alimenti, prevista intorno al 2035, l’inevitabile declino delle altre risorse a causa della crescente richiesta da parte dell’industria, e la caduta della popolazione mondiale derivante non da una pianificazione familiare, ma da drammatiche crisi ambientali ed alimentari. È questo che vogliamo per il futuro dei nostri figli? Energia per una crescita infinita? E a nulla serve sventolare tecnologie taumaturgiche come il “carbone pulito”o il “nucleare sicuro”. Il “carbone pulito” ha bisogno di dimostrazioni concrete sulla sua economicità, e sulla stabilità dei depositi di carbonio creati, ed inoltre la cattura e lo stoccaggio del carbonio richiede consumi energetici non indifferenti e quindi per ottenere un kwh di energia ci vorrebbe più carbone; prima di parlare di un bilancio emissivo positivo sono necessarie ancora verifiche sperimentali.
Per quanto riguarda il nucleare, chiunque ha affrontato seriamente la questione non può ignorare che la tecnologia attuale ha modesti spazi di allargamento per il futuro, come peraltro previsto in tutti i documenti dell’International Energy Agency, sia per un problema di costi, che a 50 anni dall’applicazione di questa tecnologia su scala industriale, ancora non conteggiano i costi di chiusura e di stoccaggio delle scorie, sia per la disponibilità di uranio, che secondo le diverse stime è in grado di alimentare la produzione attuale, peraltro limitata ad appena il 6,5% della domanda mondiale di energia primaria, per 40-50 anni.La quarta generazione è ancora poco più di una ipotesi sperimentale, ancora piuttosto lontana dalla maturazione per una applicazione industriale, che dietro la promessa riduzione della produzione di scorie e di un migliore utilizzo dell’uranio, presenta problemi notevoli di sicurezza, stabilità e controllo della reazione.
Ripensare il progresso
Piuttosto che correre a testa bassa verso un futuro incerto, e certamente molto difficile se non drammatico, non sarebbe meglio rialzare il capo e guardare seriamente alla realtà per trovare nuove strade praticabili per produrre benessere e progresso per l’intera umanità? Piuttosto che cadere passivamente nel declino subendone le conseguenze, non sarebbe meglio pianificare una auto-limitazione nell’uso delle risorse non rinnovabili (come richiede il protocollo di Kyoto) e limitare la produzione industriale a quei beni che soddisfano reali esigenze di benessere? Il discorso si fa ampio e ci porta ai concetti di “steady-state economy” (Herman Daly), sobrietà, equità e neo-umanesimo, concetti compresi in una accezione seria di sostenibilità.