Quale giudizio darà la Storia sulle stragi nel Mediterraneo, sulle sofferenze dei profughi, sulla difficoltà europea di gestire il fenomeno, sulla complessità delle dinamiche di integrazione? Abbiamo girato la domanda a Matteo Sanfilippo, docente di Storia moderna all’Università della Tuscia ed esperto di flussi migratori; ha collaborato, tra l’altro, ai volumi della Fondazione Migrantes.
Che attenzione dà la Storia ai fenomeni migratori, al tema dei rifugiati?
“Nel 1947 c’erano in Italia un milione di rifugiati italiani e stranieri, tra cui moltissimi in fuga dai campi di concentramento (su una popolazione che allora era di circa 45 milioni, quindi il 2,5%), e non ne parla nessuno. È stato un fatto apocalittico di cui non si parla mai sui libri di storia. Poi ci sono stati gli istriani italofoni scappati dal ’47 al ’49; poi dal ’49 al ’52 le rappresaglie contro le popolazioni di origine tedesca nell’Europa dell’est, le persone scappano di nuovo in Italia. Negli anni ’70 i boat people in fuga dal Vietnam. Ogni decennio ha visto massicci arrivi di rifugiati. Ma i libri di storia non parlano di nessuno, nemmeno degli sbarchi degli anni ’90 di albanesi, jugoslavi, ecc. È qualcosa di fastidioso che va cancellato”.
Perché si cancella la memoria?
“Perché, da un lato, la memoria è corta e non vogliamo ricordarci le cose brutte. Dall’altro, perché la maggioranza della popolazione è contro l’immigrazione. Ricordiamo che di recente la Cei ha fatto un’inchiesta tra i frequentatori regolari della messa: solo il 52% era a favore dei rifugiati, una percentuale bassa considerando che è uno dei pochi gruppi interessati al tema. Nella società, l’attenzione è nulla. La memoria viene cancellata perché i profughi, per l’opinione pubblica, portano problemi. Sono stato a Ventimiglia. Il Vescovo ha concesso le chiese per ospitarli, ma i fedeli sono risentiti perché non possono andare a messa. È una situazione molto complessa: noi cattolici siamo teoricamente pro-rifugiati, però ci troviamo con una parte contraria”.
Oltre 10 mila morti nel Mediterraneo negli ultimi tre anni: non contano come ‘vittime di guerra’?
“Durante una guerra, le migliaia di morti non contano, contano i milioni. Di situazioni in cui muoiono migliaia di persone ce ne sono tantissime, e noi purtroppo siamo in un certo senso assuefatti. Ma questo accadeva già nei tempi degli antichi greci, cioè quando è iniziata la scrittura. Quando Primo Levi tornò a piedi dal campo di Auschwitz, cercò di pubblicare il suo libro Se questo è un uomo, raccontando le sue esperienze del campo di concentramento e poi di rifugiato in fuga: per cinque anni le case editrici non lo vollero. La risposta fu: a nessuno interessa. L’aspetto più brutto della condizione di rifugiato è far parte di una umanità scartata. Gli altri non ti vogliono”.
Quindi la storia dei conflitti conta più di quella delle migrazioni?
“Degli emigranti si parla solo nel momento in cui diventano risorsa economica. Dei migranti italiani si è parlato male fino agli anni ’80 del Novecento. Poi ci si è resi conto che tra loro c’erano famosi attori e registi, allora si è cominciato a parlare della ‘risorsa’ italiana all’estero. Il mondo accademico non è differente dalla società a livello di scelte culturali, politiche e religiose. Ma questo succede ovunque. I rifugiati devono essere aiutati, per questo vengono visti con sospetto. Al di là dei documenti della Chiesa, è da notare che non ci sono molti interventi pubblici a favore delle migrazioni”.
Non ci sarà dunque un giudizio della Storia sull’incapacità dell’Europa di salvare vite umane?
“Probabilmente si parlerà dell’Europa che si spacca perché non è capace di far fronte all’emergenza. Aumentano gli sbarchi e aumentano quelli che vorrebbero uscire dall’Europa. In Austria un partitino xenofobo è stato sconfitto per pochi voti. Forse sui libri di storia si parlerà di questo. Fenomeni analoghi di rifiuto del rifugiato sono in tutto il mondo. Si guarda chi arriva non come ospite ma come presenza indesiderata che sconvolge la situazione. Sono discorsi che, da un punto di vista antropologico, corrispondono purtroppo alla mentalità umana”.
Non siamo più capaci di empatia e compassione?
“Di fronte a tante tragedie nel mondo è scattato un meccanismo di autoprotezione psichica perché si ritengono cose lontane. L’interesse del singolo essere umano è molto limitato e concentrato sul presente, non tiene conto della storia e del futuro. Noi non vediamo mai nessun fatto in maniera oggettiva, ma sempre attraverso filtri culturali, economici, sociali. Più andrà male l’economia, più gli italiani diranno che già stanno male, quindi non possono accogliere perché devono essere aiutati. Quando l’economia andava meglio c’erano stati più aiuti e donazioni nei confronti dei profughi dell’ex Jugoslavia o dei Paesi africani”.
Come fare per trasmettere un po’ di fatti oggettivi – e umanità – alle persone?
“Non è semplice spiegare i fatti come sono, perché coloro che non hanno l’emergenza sotto gli occhi non la considerano. Al contrario, gli abitanti di Ventimiglia, che hanno 300 accampati sulla spiaggia, non pensano che sono numeri piccoli. Anche perché è un’epoca di feroci localismi. Tutto il resto non esiste. Coloro che parlano e insegnano possono solo provare a far capire cosa sta succedendo. Cerco di ricordare ai miei studenti che questi fatti succedono oggi ma sono accaduti anche ieri, l’altroieri. La migrazione è un fatto normale che nasce dalla preistoria, non è una questione di ricchezza o povertà. Siamo un ‘mammifero ambulante’, poi ovviamente le guerre, la povertà e le catastrofi naturali incentivano gli spostamenti. L’attività di testimonianza è l’unico modo di tenere viva la possibilità che qualcuno capisca. La speranza è che la coscienza si amplii e che in politica ci sia un numero sufficiente di persone sensibile a questi temi”.
Ci sarà mai un giorno in cui il fenomeno potrà essere regolamentato in maniera legale?
“Penso di no. Resteranno sempre Governi che proporranno manovre di breve durata, e migranti che continueranno a spostarsi”.