Piano sociale: capitolo secondo. In attesa della fine della fase partecipativa il 15 febbraio prossimo, La Voce prosegue il suo approfondimento su questo importante strumento di programmazione del welfare regionale con l’obiettivo di stimolare il dibattito tra i vari soggetti coinvolti.
Se la scorsa settimana abbiamo dato voce al mondo delle cooperative, oggi è la volta dei Comuni, le vere “braccia operanti” in materia di sociale. A rappresentarli è Edi Cicchi, nella duplice veste di assessore ai Servizi sociali del Comune di Perugia e di coordinatore della Consulta welfare dell’Anci.
Assessore, è stato ribadito più volte dall’assessore regionale alla Coesione sociale e al welfare, Luca Barberini, che in questo nuovo Piano sarà dato un “ruolo potenziato e un rinnovato protagonismo” alle istituzioni, a cominciare dai Comuni. Cosa significa?
“Sinceramente, non lo abbiamo ancora capito. Ad oggi è stato detto nella teoria, ma, in pratica, non è stato ancora specificato. Il Piano descrive la situazione nella quale ci troviamo, il contesto regionale di riferimento, ma non gli strumenti con cui noi Comuni potremmo andare a intervenire concretamente su questo contesto.
È come se palazzo Donini avesse dato la cornice esterna, i confini di movimento, ma spetta poi ai Comuni dipingere il quadro dei servizi sociali offerti al cittadino. E senza sapere quanti e quali colori abbiamo a disposizione, è difficile pianificare se il nostro sarà un leggero acquerello o un’intensa tempera”.
Quali sarebbero gli strumenti che chiedono i Comuni?
“Da una parte le tipologie di servizi che si vogliono mettere in campo, dall’altra le risorse a disposizione. In merito al primo punto, chiediamo che sia individuato con chiarezza – e nella ovvia consapevolezza di non poter sopperire a tutte le necessità, dato il periodo di crisi e carenze di risorse – quali sono le nostre priorità di intervento.
Quali sono i servizi essenziali che vogliamo dare al cittadino? Quali gli standard? Quali i ruoli da svolgere? E ancora, quali le professionalità da inserire? Le faccio un esempio: nel Piano non si parla del ruolo degli Uffici di cittadinanza, che sono il luogo concreto dove arrivano le richieste, la porta d’accesso alla rete dei servizi sociali e socio-sanitari. Né si fa il punto della situazione sulla loro attività degli ultimi anni.
A mio avviso, occorre capire il ‘già fatto’ per pianificare un cambiamento o una continuazione del percorso. Non ci interessano 200 pagine di documento, se tutti questi punti interrogativi non vengono soddisfatti”.
E in merito alle risorse?
“Per le risorse il discorso è analogo al precedente. È vero, nel Piano, si parla di una disponibilità finanziaria [55 milioni di euro, ndr], ma è una cifra complessiva. Non viene specificato quante risorse, ad esempio, andranno all’ambito della famiglia, all’aiuto agli anziani, disabili o minori. Come possiamo noi Comuni perseguire un fine, che è quello di rispondere ai bisogni dei cittadini, se non sappiamo i mezzi a nostra disposizione?
Le faccio un esempio: in questi mesi i due Centri anti-violenza della Regione hanno operato con almeno 400 donne e ne hanno accolte 38; a marzo termineranno i fondi a loro destinati, ad oggi non sanno se e quanti ne avranno ancora. In più, nel Piano sociale non se ne fa alcuna menzione. Cosa succederà se questi fondi non arrivano?”.
Anche perché i fondi sono comunque vincolati a progetti che vanno presentati e approvati…
“Sì, la pianificazione è fatta dalle Regioni che presentano progetti per accedere a risorse nazionali o al Fondo sociale europeo. Dopodiché la Regione emana dei bandi per i Comuni. Quindi anche noi siamo vincolati a questi progetti. Qui il rischio è quello di parcellizzare eccessivamente le risorse in troppi settori e sottosettori, con l’unica conseguenza di un aggravio del lavoro burocratico dei Servizi sociali comunali che non corrisponde, però, a interventi realmente incisivi.
In passato, ad esempio, il Fondo per la famiglia era stato ‘spezzettato’ in almeno otto interventi diversi. Tanti progetti con poche risorse disponibili per ciascuno equivalgono a tanto lavoro ma pochissima resa. Anche perché i nostri uffici sono già sufficientemente oberati: solo al Tribunale dei minori sono in essere all’incira 1.900 provvedimenti”.
E chi resta fuori da questi progetti?
“In caso di minori, anziani o disabili non si resta mai fuori, in quanto siamo sempre obbligati a intervenire. Nei casi di povertà, invece, abbiamo costruito – a differenza del passato – una buona rete con la Caritas, al fine di cercare di dare a tutti una risposta”.
L’assessore Barberini ha insistito sulla volontà di una co-progettazione tra i vari soggetti coinvolti per la pianificazione sociale e socio-sanitaria, prevedendo anche laboratori di comunità…
“Il nodo della co-progettazione è questo: chi siede intorno al tavolo? Nel senso: i soggetti presenti devono essere stati selezionati sulla base di determinati requisiti, che ad oggi, però, non conosciamo. Solo in questo modo si può fare sistema e mettere insieme le proprie specificità e competenze in maniera costruttiva.
Questi anni di crisi ci hanno portato alla consapevolezza che viviamo in una società dove la povertà, sia economica che umana, è reale e quasi sempre accompagnata dalla solitudine. Le persone ci chiedono interventi tempestivi, velocità nelle risposte, anche perché arrivano da noi quando le loro difficoltà sono già ad uno stato molto grave. Dobbiamo essere per loro una ‘tachipirina’, ovvero un palliativo non risolutivo, ma comunque capace di tamponare la situazione nel breve periodo, al fine di avere il tempo di costruire un percorso.
Se coordinati, possiamo essere davvero una grande risorse per il territorio. Altrimenti si rischia ancora una volta di perdersi nella burocrazia e nella vacuità di tavoli, sotto-tavoli e laboratori che ingolfano ancora di più il lavoro con una serie di passaggi inutili”.
Laura Lana