Si sfidano a calciobalilla o ping-pong, mostrano il cellulare per far leggere al compagno l’ultimo commento ricevuto su Facebook, si prendono in giro e improvvisano una partita di calcetto. I quindici minuti di ricreazione a metà mattinata, tra un’ora di lezione e l’altra, trascorrono ogni giorno uguali nella mia scuola superiore. Per nove mesi l’anno l’entusiasmo dei ragazzi trova in questa pausa dallo studio il suo sfogo per affrontare cinque ore di lezione.
Solo un occhio attento potrebbe così notare come, in questo mese di luglio, una sottilissima linea di confine “separa” una parte di questi adolescenti dall’altra. Anzi no, separazione non è il termine esatto. Perché indica una divisione, un limen tra una parte e un’altra. Tutto il contrario di quello che si respira durante questi quindici minuti: l’adolescenza è un collante ben più saldo della provenienza geografica.
Ma torniamo a noi. Questa diversità (è questo il termine che scelgo) che si può percepire a luglio la racconta il bancone del bar, dove – caso unico in nove mesi – avanza qualche panino e alcune pizzette. Come mai? “Perché noi osserviamo il Ramadan”, risponde uno dei ragazzi con tutta la naturalezza del mondo.
Naturalezza che mi ricorda come, in realtà, la mia domanda sia abbastanza scontata. La mia scuola, come tante altre in Umbria (e in Italia, ovviamente) accoglie giovani di nazionalità diverse, culture diverse e credi religiosi diversi. La multiculturalità è una realtà che si sperimenta ogni giorno sui banchi di scuola. Questi giovani uomini e donne – tra i 15 e i 19 anni – fanno parte della cosiddetta “prima generazione”, ovvero di coloro che non sono nati in Italia, ma arrivano da noi con uno o entrambi i genitori da un Paese straniero. In Umbria stiamo parlando di oltre 17 mila allievi spalmati nei vari gradi di scuola, circa il 13-14% del totale; di questi, circa 4 mila (intorno all’11%) nelle scuole secondarie di secondo grado (dati del ministero dell’Istruzione, università e ricerca relativi all’anno scolastico 2012-2013).
Così, questa volta, sono loro a insegnare qualcosa a me. Mi spiegano come “il Ramadan è il nono mese dell’anno secondo il calendario musulmano, durante il quale si pratica il digiuno dal cibo, dall’acqua, dal fumo e dai rapporti sessuali”. Una tradizione fissata dal Corano e che costituisce il terzo pilastro della religione musulmana per ricordare il mese in cui Maometto ha ricevuto la rivelazione dall’arcangelo Gabriele. “È un atto di purificazione, in cui si dominano gli istinti umani per innalzarsi a un livello più spirituale”, mi racconta una giovane marocchina.
Nonostante la lontananza dal loro Paese d’origine, per questi giovani musulmani il Ramadan resta un’usanza fissa, imprescindibile, una delle tradizioni più forti non soltanto della loro appartenenza culturale, ma prima di tutto familiare. “Me lo hanno insegnato i miei genitori; come loro, lo praticano tutti i miei parenti e le persone musulmane che conosco”, spiega un 18enne che viene dalla Libia.
Fino al momento dell’Iftar, il pasto serale. “Abbiamo uno specifico calendario che indica, tutti i giorni, l’orario di alba e quello di tramonto. Appena avvenuto il tramonto festeggiamo, mangiamo, beviamo e usciamo con le nostre fidanzate”, ammettono questi giovani in gruppo, sorridendo.