Di Adriano Fabris
In quest’ultimo scorcio di legislatura sembra che tutti i problemi che in precedenza non sono stati affrontati tornino alla ribalta dell’agenda politica. È il caso, ad esempio, della regolamentazione del Web e della necessità di fare i conti con il proliferare in esso di informazioni false o fuorvianti: le cosiddette fake news o “bufale”. Certo: non è un caso che di fake news si parli con l’approssimarsi della campagna elettorale. Sempre più chiaramente si sta delineando l’influenza che, in recenti competizioni democratiche, le notizie false hanno avuto sulle decisioni degli elettori. Ma quella a cui assistiamo non è, forse, una preoccupazione che vuole entrare nel merito delle questioni. Più probabilmente si tratta di un’occasione in più per delegittimare l’avversario politico.
Noi cattolici però ci teniamo lontani da queste forme di strumentalizzazione. Noi vogliamo anzitutto capire come funzionano certi meccanismi. E lo vogliamo fare perché a noi, ancora e sempre, sta a cuore la verità. In altre parole: perché non abbiamo rinunciato a ritenere che dire la verità sia possibile e all’impegno che ci spinge a testimoniarla. Proprio a questo ci esorta il Papa nel suo messaggio per la 58a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che ha appunto come titolo: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Notizie false e giornalismo per la pace.
Oggi tuttavia dire la verità è più complicato che nel passato. Infatti il nostro potere comunicativo è accresciuto grazie all’uso, per esempio, dei social network.
Viviamo dunque in un’epoca in cui l’overdose d’informazioni, la difficoltà della loro verifica, la rapidità del diffondersi delle notizie, favoriscono il proliferare delle false notizie. Ma ciò non significa che chiunque assecondi questi processi sia sgravato dalle sue responsabilità. Al contrario. Se non fa uso del buon senso, se crede a tutto ciò che gli viene proposto, se si limita semplicemente a rilanciare una notizia, magari solo per motivi ideologici, allora diviene corresponsabile di questa situazione. Questo però non significa diffidare di tutto e di tutti. Sarebbe un rimedio peggiore del male. Sarebbe la morte di ogni nostra relazione, che si basa appunto su un’apertura di fiducia. Bisogna invece recuperare l’iniziativa, riprendere e rivendicare la nostra capacità di comunicare bene.
Dire la verità, infatti, è possibile anche nell’epoca delle fake news. Ma ad alcune condizioni. Non bisogna anzitutto confondere verità e opinione. Tutti abbiamo delle opinioni, e siamo legittimamente autorizzati a esprimerle, ma solo alcuni hanno le competenze per fare un discorso che sia davvero valido e condivisibile. Non è la stessa cosa la mia opinione su una malattia o su una cura, basata magari su qualche ricerca in Internet, rispetto a ciò che ne può dire un medico. Bisogna poi conoscere i meccanismi delle piattaforme usate per rilanciare e diffondere notizie online. I social network, ad esempio, da una parte diffondono opinioni fra loro polarizzate, favoriscono la contrapposizione piuttosto che la mediazione. Dall’altra parte hanno la capacità di aggregare solo chi la pensa allo stesso modo, scoraggiando un reale confronto fra posizioni diverse. Nel primo caso i social esaltano l’espressione di un risentimento diffuso nei modi di una protesta anche violenta. Nel secondo caso fanno da filtro, ci chiudono all’interno di una bolla in cui tutti la pensano come noi.
Di fronte a tutto questo, e a molto altro di cui potremmo parlare, mettere nuove regole, come stanno pensando di fare alcune forze politiche, non serve a molto. Anche perché sarebbe davvero difficile punire i trasgressori. Meglio è educare a capire il problema e motivare a un buon uso delle forme espressive che quotidianamente usiamo. Ciò vale soprattutto per i nostri ragazzi: i più esposti alle distorsioni della comunicazione e i più influenzabili da esse.
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