Ripartire da ciò che abbiamo scritto sul nostro Statuto, e prima ancora da quello che abbiamo vissuto nella vecchia villa Piccolomini.
Io arrivai a Fermo, in piazza Temistocle Calzecchi Onesti (il nonno della grande Rosina) alle 9 di mattina del 30 giugno 1970 e chiesi dove si trovava Capodacqua. Avevo in tasca un articolo di qualche tempo prima, pubblicato da Giulino Zincone sulla terza pagina (quella riservata alla cultura, allora!) del Corriere della Sera, che mi diceva che da queste parti si poteva fare davvero un buon campo di lavoro. I ragazzi del Movimento studenti eugubino e io, da qualche anno, passavamo una buona fetta dell’estate a lavorare qua e là in questo o quel campo di lavoro; splendido quel non voler essere privilegiati rispetto ai loro coetanei operai, che avevano solo un mese di ferie! Il campo di lavoro aveva anche questa funzione riparatoria: tirata fuori dallo sgabuzzino dei ricordi, questa aspirazione oggi sa di muffa, allora sapeva di vita.
Ma a volte il campo di lavoro riusciva male, perché non rispondeva né a un progetto ideale forte né a un bisogno reale impellente. Quando salimmo sui monti a ovest di Gubbio, nella zona di Burano, per aiutare i contadini a falciare l’erba, successe che uno di quei potenziali beneficiari della nostra generosità, quando vide in che modo il più bravo di noi aveva imbracciato la falce fienara per cominciare il suo lavoro, fece tre balzelloni e gliela strappò di mano: “Vo’, carino, potete pure mandare a lo spidale qualcuno dei vostri, ma ta me, ’n galera… no!”.
A Capodarco trovammo… lo tsunami. Un centinaio di invalidi e una ventina di giovani al loro fianco, riuniti nel Centro comunitario “Gesù Risorto”. Sia sul piano dei bisogni reali che sul piano del messaggio ideale, la tensione era altissima. Un orgoglio smisurato espresso da gente fortemente colpita nel fisico, mai però ripiegata a piangere le proprie disgrazie. Gente che da cinque anni viveva in ambienti rimediati, con le pareti screpolate, con armadi più disabili dei loro usufruttuari, con le valigie di cartone sopra i mobili, alcune ancora legate tutt’intorno con lo spago. Quello che maggiormente ci colpì fu la qualità della decisione di rifiutare finanziamenti statali pur di non accettare, mai e poi mai, una direzione nominata dall’esterno: “Fatelo! Ci metteremo sotto una bomba!”.
Dovette muoversi da Roma il Direttore generale del ministero della Sanità (le Regioni ancora non esistevano), andare a Capodarco, concordare con Casa Papa Giovanni una nuova figura di presidio per accoglienza dei disabili, il Centro di recupero medico-sociale autogestito, che ha funzionato egregiamente fino a qualche anno fa, fino all’ultimo riordino della materia. Tempi eroici.