Accanto ad aver concesso “a cani e porci” la qualifica di socio, l’altro mio errore madornale, come presidente della Comunità di Capodarco dell’Umbria, è stato quello di aver dato per scontato che ogni disabile fosse automaticamente un liberatore.
Fu, la mia, la generalizzazione di un’esperienza unica.
Luglio 1970. Era la prima eucaristia alla quale partecipavo, a Capodarco di Fermo, insieme a un centinaio di invalidi e una ventina di volontari. Durante quella messa, qualcuno lesse, dal quotidiano Paese sera, una “Lettera al direttore” che interveniva su di un tema dibattutissimo in quei giorni: la responsabilità di un giovane padre che, in un eccesso di disperazione, aveva gettato nel Tevere il suo primogenito, focomelico (senza gambe e senza quattro dita). L’anonimo lettore scriveva: “La vera responsabilità l’hanno avuta i medici e gli infermieri che hanno gestito il parto e non hanno eliminato subito il bambino, perché… le mele marce vanno eliminate a tempo”.
Silenzio, un lungo silenzio. Poi dalla sua carrozzina prese la parola Marisa Galli. Braccia protese in avanti, irrigidite; il volto contratto da uno sdegno trattenuto a fatica, disse: “Parlo nella mia qualità di mela marcia che non hanno fatto a tempo a eliminare”.
Quello che Marisa Galli disse quel giorno per me era stupefacente. Parlò del contributo altissimo che i disabili possono dare alla vita di tutti, del loro ruolo di fondamentale importanza per la costruzione di un mondo migliore, di come la Chiesa disegnata dal Concilio appena terminato avesse bisogno di loro come di protagonisti di nuovo conio. Marisa aveva dietro di sé una lotta immane per svincolarsi da una situazione di gravissima emarginazione, e davanti a sé una vita feconda di bene come pochissime altre al mondo. Tetraparetica, sulla soglia dei trent’anni, viveva in campagna, alla periferia di Servigliano, un paesone in provincia di Fermo, quando don Franco Monterubbianesi le aveva comunicato, a lei per prima, il suo progetto di dare vita a una comunità nella quale i disabili fossero protagonisti del proprio riscatto. Da quel momento Marisa era entrata in ebollizione. Aveva messo insieme una serie di indirizzi di persone che avrebbero potuto essere interessate al progetto. E aveva cominciato a scrivere, a mano, lentamente, lentissimamente, ma senza smettere un minuto. E aveva guadagnato 250.000 lire infilando con una valanga di ore di lavoro 250.000 perline di plastica colorate su di un filo facendone delle collane.
Non fu l’unica, ma fu una delle pochissime persone invalide che della comunità fecero lo scopo della propria vita. Le altre (molte altre) usarono la comunità come trampolino di lancio per realizzare una loro vita decorosa. E all’occorrenza tirarono fuori gli artigli di un egoismo di primissima qualità. Altro che “liberatori”!