Ci sono tre verbi – rimanere, andare, gioire – che sono entrati dal 3 maggio nel vocabolario di un’associazione di laici impegnata a ricucire con il filo robusto delle relazioni il tessuto umano di un territorio, di un Paese e del mondo. Una passione le cui radici e ali sono in una fede pensata, vissuta e comunicata.
I tre verbi sono di Papa Francesco e si affiancano a quelli della Evangelii gaudium. L’associazione è l’Azione cattolica italiana, che ha appena concluso la sua Assemblea nazionale elettiva, ravvivata da un fitto dialogo tra generazioni attorno ai problemi, alle ansie e alle attese di questo tempo.
Rimanere significa sostare con lo Sconosciuto di Emmaus e riconoscerlo dal gesto che compie. Andare significa accompagnare il passo degli altri viandanti sulla strada della vita. Gioire significa cantare lo stupore nell’incrociare oggi il proprio sguardo con quello dello Sconosciuto.
In tanto camminare, andare e uscire – ricorda il Papa – anche il sostare ha un suo profondo significato. È il tempo dell’incontro, del riconoscimento, della comunicazione tra i volti e il Volto – e non certo il tempo dell’indugio, della paura, della chiusura.
Così l’appello di Francesco, rivolto ai laici, a uscire non risuona come un improvviso squillo di tromba, ma è l’incipit di un atto di amore che nasce dalla consapevolezza che uscire da se stessi e andare all’incontro con l’Altro e agli incontri con gli altri è il passo imprescindibile per ritrovare pienamente se stessi.
Significa mettere in luce la grandezza missionaria della parola “laicità” e ricordare che “in uscita” vuol dire abitare il mondo non in retroguardie impaurite, ma in posti avanzati dove scorgere e segnalare la luce di una speranza e di una gioia non effimere. In questa prospettiva prende sostanza l’appello, ripetuto più volte all’assemblea di Ac, a passare dal tempo delle analisi al tempo di un’azione efficace perché pensata e condivisa.
Ed è questa una strada da intraprendere, anche oggi, per evitare la deriva del clericalismo.
Su questo rischio il 22 marzo scorso si era soffermato il Papa nell’incontro con Corallo, l’associazione che riunisce le emittenti radio-tv cattoliche italiane. “Il laico – aveva detto a braccio – deve essere laico, battezzato, ha la forza che viene dal suo battesimo. E perché è più importante il diacono, il prete del laico? No! È questo lo sbaglio. È un buon laico? Che continui così e che cresca così. Perché ne va dell’appartenenza cristiana, lì. Per me il clericalismo impedisce la crescita del laico. Ma… non ci sarebbe il clericalismo se non ci fossero laici che vogliono essere clericalizzati”.
Il monito è chiaro, perché una laicità dimezzata o svuotata impoverisce la Chiesa e indebolisce, se non svuota, l’annuncio del Vangelo. Non a caso, allora, un’associazione di laici quali Ac pone il valore della corresponsabilità a fondamento del suo essere al servizio della Chiesa e della Città.
Anche dalla consapevolezza che essere corresponsabili e non solo collaboratori prende il via quella conversione pastorale che il Papa indica e auspica con le immagini di una Chiesa in uscita, una Chiesa ospedale da campo, una Chiesa madre di tutti, una Chiesa senza frontiere.
Questo è un tempo favorevole per un laicato “in uscita”. Per un laicato che non ha bisogno di aggettivi ma di sostantivi, cioè di gesti, di volti e pensieri, per essere testimone e comunicatore di una speranza e di una gioia che non hanno confini di tempo e di spazio.