Sacerdote, re e profeta. Lui pesa quanto un pulcino e non sa far altro che frignare monotono, mingere a ciclo continuo e ciucciare come un avvinazzato.
Ma il prete che lo sta battezzando gli dice che lui deve essere sacerdote, re e profeta. Tre parole, tre macigni. Che dirne?
Sul piano culturale, è chiaro che il cristianesimo ha un’idea altissima dell’uomo, di ciò che è e di ciò che può diventare. Vi ricordate di quando gli anticlericali più acidi ci dicevano che noi cristiani “umiliavamo l’uomo in nome di Dio”? Ricordate Le fonti del Clitunnno, quando il vecchio Carducci si lasciò andare all’enfasi della sua cirrosi epatica, e pianse su Roma collassata (“Roma più non trionfa!”) da quando “un galileo / di rosse chiome il Campidoglio ascese, / gittolle in braccio una sua croce, e disse: / Portala, e servi”. Ah sì!? La fede cristiana umilia l’uomo? Il cuore del rito battesimale dice il contrario: nel disegno divino ogni uomo può e deve essere sacerdote, re e profeta. Sì, anche re, in un mondo dove l’unico re che conta è quello di denari quando si gioca a sette e mezzo!
Sul piano sacramentale il crisma sulla fronte del battezzato, accompagnato da quelle tre… magiche parole, vuol dire che la liberazione dall’ipoteca del pauroso squilibrio che, nascendo, ogni uomo si porta dentro, la liberazione dal “peccato originale”, non è fine a se stessa, ma è il necessario presupposto di una vita che, se lui ne accetta le dinamiche, sarà strepitosa.
“Cristiani”, cioè ambiziosi al di là di ogni possibile esagerazione. “Semo cristiani, e alora semo boni e volémose bene!”, diciamo a Gubbio quando la squadra di calcio ha perso in casa e qualcuno minaccia sfracelli. “Semo cristiani, e alora semo boni e volémose bene!”: siamo tentati di ripetere ogni giorno. No, non basta, questo è minimalismo deteriore!
Siamo cristiani, e allora giorno dopo giorno, in base a quel sacerdozio dei fedeli che per noi è un’attribuzione identitaria (mentre per i diaconi, presbiteri e i vescovi è un’attribuzione di servizio) celebriamo e offriamo la vita per quello che è, un dono, e niente affatto un giocattolo (come dicono alcuni) o una tragedia (come dicono altri).
Siamo cristiani, e allora contribuiamo a cambiare in meglio la realtà che ci circonda, quella a contatto immediato e quella del mondo intero, che a tutti è stato affidato come un giardino da coltivare.
Siamo cristiani e allora, con la vita più che con le parole, cantiamo la bellezza della vita e della morte: l’ultimo, splendido libro di Alberto Maggi la chiama L’ultima Beatitudine.