La vocazione? Vivere da figli di Dio

Don Fabio Rosini, sacerdote e biblista della diocesi di Roma, è l’ideatore del celebre percorso catechetico sul Decalogo. Già responsabile per le vocazioni e formatore in seminario, oggi è il direttore dell’ufficio diocesano di Pastorale universitaria. Invitato come relatore in occasione della Giornata regionale del clero umbro, ha concesso a Cor Unum questa intervista.

Rosini, lei ha scritto: “Nei seminari abbiamo formato eserciti di transustanziatori o di operatori sociali e gestori, ma non di padri nella fede”, come pensa si possa risolvere questa problematica?

“Nella logica del seminario, prevale una tendenza a voler riempire le caselle dell’organigramma ecclesiale. Il problema è avere preti e la fretta di riempire le postazioni nelle parrocchie, porta ad essere un po’ superficiali su quello che stiamo producendo. Come si fa a diventare padri nella fede? Per prima cosa bisogna essere figli nella fede; la paternità nasce dalla figliolanza, non dimentichiamo le fasi del processo umano necessarie per ciascuno: figlio-fratello-sposo-padre. Un prete prima di essere padre deve essere figlio generato nella fede e non rastrellato dal disavanzo o dal fondo dei bacchettoni locali parrocchiali. Abbiamo una pastorale vocazionale che cerca di catturare i ‘chierichetti mancati’, poi li mettiamo in seminario perché l’importante è che siano bravini esternamente, che non sporchino e che siano buonini. Invece bisogna avere gente che abbia avuto un’esperienza di rigenerazione. Ricordiamo che il battesimo viene prima del presbiterato e molti dei problemi del presbiterato sono di carattere battesimale: i problemi di castità, di obbedienza, di comunione sono problemi battesimali; infatti la preghiera di tanti preti crolla perché c’è un problema di relazione con il Padre e questo nasce dall’intimità della verità battesimale”.

Come pensa possa essere rivisto l’iter formativo nei seminari?

“Ho scritto tempo fa un articolo per la rivista Vocazioni della Conferenza episcopale italiana dove spiegavo la relazione fra kerygma e discernimento vocazionale: noi non dovremmo accogliere nei seminari persone che non hanno fatto un’esperienza esplosiva di Dio; se non c’è la radice dell’esperienza rigenerante su che cosa lavoriamo? Ricordo ancora mons. Pacomio, ex rettore del collegio Capranica, che diceva: ‘quando mi arriva un ragazzo normalmente prima lo devo formare come uomo poi come cristiano e poi se ce la faccio, come prete. In genere si arriva alla fine del seminario che sto lavorando ancora sull’essere cristiano e poi bisogna ordinarli perché i vescovi hanno fretta’. Questo vuol dire che però ci deve essere anche un’iniziazione alla paternità nella Fede, come si fa?

Bisogna mettere i seminaristi accanto a sacerdoti che obiettivamente sappiano gestare e generare nella fede, non basta mandare in una parrocchia un ragazzo perché faccia semplicemente un’esperienza di pastorale, bisogna metterlo nelle realtà che funzionano veramente. Quando c’è qualcuno che sa formare alla fede, mettigli accanto un seminarista! Perché l’apprendistato si fa nella bottega. Da che mondo è mondo l’apprendistato si fa accanto all’artigiano. Il fine della formazione deve essere l’autonomia del ragazzo; autonomia intesa come capacità nel saper generare la fede nelle persone, ed è per questo che poi si ordina sacerdote. Il problema è questo, non è che noi non abbiamo preti, non abbiamo cristiani! La mia politica vocazionale è stata quella di generare la fede in tanti giovani e poi Dio sceglieva fra di loro quelli che potevano entrare in seminario. Il problema è curare la fede! Ultimamente l’abbiamo lasciata un po’ alla devozione, al privato delle persone. Il problema è fare esperienze di evangelizzazione seria. Si apprende ad evangelizzare andando nel pratico. Come si fa, ad esempio la sinodalità? Facendola. È pensando che si impara a pensare, è lavorando che si impara a lavorare”.

I nostri coetanei manifestano una grande propensione al bene, pur non ritenendo la Fede una priorità. Quale modalità di annuncio intravede per evitare di ridurre l’esperienza del Vangelo ad un semplice stato emozionale?

“I cuori dei giovani non possono essere toccati da cose piccole, bisogna proporre cose molto grandi. Noi abbiamo svalutato la pastorale giovanile facendola diventare intrattenimento per giovani. Ricordo che mia nipote, tornata da un evento della diocesi per preparare la Gmg di Lisbona, mi disse: ‘Puoi dire ai tuoi colleghi che noi ci divertiamo da soli e che non c’è bisogno che loro ci facciano da badanti? Parlateci di altro, di cose serie’. In questi anni ho avuto una quantità spaventosa di giovani, ma perché? Perché ho fatto sempre una proposta alta, radicale. Francesco d’Assisi fu perseguitato all’inizio perché tutti i giovani volevano stare con lui, ma come si fa a stare con un tipo che da ricco che era va a vivere con i lebbrosi? Stanno con lui perché quello che vedevano era bello. Era autentico! Ci sono tanti giovani, per esempio, che partono per fare volontariato in Africa con iniziative aconfessionali, perché viene loro proposta una cosa alta. Bisogna proporre cose alte, esigenti, impegnative! Bisogna andare verso il grande Bene di cui abbiamo parlato, è il Bene che converte.

Il kerygma non è una formula da dire, è una bellezza da far brillare, è un riflesso da far splendere, è un raggio di luce che arriva ed è corrispondente al cuore dell’uomo. Ciò non deve essere una forzatura, non è costringere l’altro dentro uno schema etico-culturale, ma è annunciare la bellezza che è intrinseca alle persone, è annunziare Cristo crocifisso come Colui che sa dare questa bellezza alle persone, che le sa far maturare fino alla pienezza della propria vocazione. Sento dire in alcuni posti che esistono due vocazioni: o diventi prete o ti consacri. Non è così! Esiste una sola vocazione: vivere da figli di Dio! Nella vita si può essere moglie, marito, padre, madre… ma se non ci sente figli di Dio… se non si ha la capacità di amare in quanto figli, è inutile farlo. È questo che dobbiamo annunciare: la vita dei figli”.

La Presbyterorum ordinis, pone particolare attenzione alla dimensione fraterna della vita sacerdotale, tuttavia spesso viene trascurata. Perché ci si limita a vivere la comunione presbiterale solo di rado? Quali soluzioni il ministero potrebbe abbracciare per favorire la fraternità?

“Il problema è che i ragazzi in seminario vengono formati per essere prime-donne, da cui scaturisce una logica individualista. La dimensione comunionale non è una dimensione presbiterale ma cristiana. La comunione implica relazione, implica comunicazione. Bisogna curare tutto ciò che riguarda il lavorare insieme, crescere insieme, dialogare e condividere la gioia, l’allegria anche di vivere insieme le cose. Io penso che quando in seminario si è stati compagni d’anno si resta amici, ma c’è da sottolineare che l’amicizia è una dimensione che abbiamo curato un po’ a casaccio. L’amicizia è il più alto livello di relazione che possiamo trovare nel Vangelo di Giovanni. L’amico è Lazzaro, per cui Gesù si comporta da amico. Cioè non va a salvarlo dalla malattia, ma lo tira fuori dal sepolcro. L’amicizia è parte del piano di Dio. Capiamo che l’amicizia va curata non in maniera sentimentale, ma evangelica! Bisognerebbe tornare al concetto di amicizia di sant’Agostino che su questo ha parlato molto”.

Paolo, Pietropaolo e Mattia

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