Il 9 marzo la Camera ha concluso la discussione sul disegno di legge in materia di Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) e ha stabilito di prendere un mese di tempo prima del voto che la prossima conferenza dei capigruppo dovrebbe calendarizzare per aprile. Rimane acceso il dibattito sulle questioni di fondo e sulle poste in gioco. Ne parliamo con Alberto Gambino, docente di Diritto privato all’Università europea di Roma. Il rifiuto di qualsiasi terapia coercitiva è già costituzionalmente garantito. Inoltre, secondo alcuni, il fine vita è materia troppo delicata e complessa per essere normata da una legge… “Le leggi – dice Gambino – non hanno carattere di astrattezza, intervengono sui fenomeni sociali e in risposta a precise situazioni. Nella fattispecie il caso Englaro, dove c’è stata una sentenza della corte di Cassazione, organo supremo italiano che stabilisce la legittimità delle azioni umane e, pur non avendo forza vincolante, dal punto di vista del ‘precedente’ ha un peso molto rilevante su quanto possono successivamente decidere i giudici di grado inferiore. In quella vicenda, pur in mancanza di una prova certa della dichiarazione di volontà del soggetto, attraverso presunzioni e testimonianze è sembrato desumersi che di fronte alla situazione configuratasi la ragazza avrebbe scelto di lasciarsi morire. Il caso ha posto immediatamente un duplice nodo: la questione della certezza di volontà ricostruite su base indiziaria, e al tempo stesso la questione se un soggetto possa disporre della propria vita ora per allora attraverso un atto scritto, delegando ad altri l’esecuzione di tale scelta”. Non vi è il rischio che, provata la “certezza” delle volontà, il principio di autodeterminazione possa confliggere con quello dell’indisponibilità della vita? “In questi due anni sono stati creati strumenti probatori – l’affidamento delle proprie volontà ad un atto scritto reso all’amministratore di sostegno o, scegliendo la via amministrativa, l’istituzione di Albi dei biotestamenti in una cinquantina di Comuni – senza tuttavia affrontare la questione del limite ai contenuti di tali documenti. Se vale il principio che ogni volontà cristallizzata in un atto scritto va assecondata, si rischia di dover dare corso anche a scelte in contrasto con i valori costituzionali di tutela della salute e della vita, quali le richieste eutanasiche. Di qui la necessità di una legge che fissi dei confini ai contenuti di queste Dat riaffermando, come il ddl [disegno di legge] all’esame della Camera, l’indisponibilità della vita, escludendo ogni forma di eutanasia, e anche di rifiuto di alimentazione e idratazione considerati forme di sostegno vitale e non terapie. Il secondo importante paletto, previsto nel ddl, è la non vincolatività di tali dichiarazioni per il medico al quale va lasciata, ‘in scienza e coscienza’, l’ultima parola”. Che cosa risponde a chi afferma che il ddl contraddice l’art. 32 della Costituzione?“Si tratta di due situazioni che non possono essere messe sullo stesso piano. Nel concreto verificarsi dell’evento traumatico, un soggetto in piena coscienza può rifiutare determinate terapie, ma si tratta di un atto personale e non delegabile, diverso dall’affidare anticipatamente per iscritto le proprie volontà ad un pezzo di carta con la richiesta al medico di eseguirle, magari ponendo fine alla propria vita. Ribadisco che il cosiddetto diritto all’autodeterminazione, peraltro non rinvenibile nel nostro ordinamento e nella nostra Costituzione, non può portare alla legittimazione di scelte individuali in contrasto con i valori costituzionali della tutela della salute e della vita”. Quale il ruolo del diritto, e quindi della legge di cui qualcuno invoca la “neutralità”, quando è in gioco il valore più alto, quello della persona e della vita umana? “L’indisponibilità della vita come principio fondamentale del nostro ordinamento non riguarda solo il singolo ma l’intera società. Qui sono in gioco la dignità della persona e la solidarietà nei confronti degli altri ‘consociati’. Dal punto di vista del diritto, legittimare la libera volontà delle persone di disporre della propria vita significherebbe rinunciare alla tutela dei più deboli, di chi si dovesse trovare in uno stato di ‘incapacità’. Il nostro ordinamento non può rimanere indifferente o neutrale ma è chiamato a veicolare quell’etica condivisa che è alla base del patto sociale dei cittadini. Quanto all’arbitraria pretesa di stabilire il grado di dignità di una vita umana, occorre rammentare che la nostra corte di Cassazione ha definito la persona un bene giuridico in sé, indipendentemente dai modi e forme della realizzazione di se stessa. Per questo oggi dobbiamo riscoprire e valorizzare, anche attraverso il diritto, l’essenza e la dignità intrinseca di ogni uomo, altrimenti si rischia il sopruso del più forte nei confronti del più debole, e il prevalere di logiche improntate a calcoli economicistici e a cinici profili di analisi costi-benefici”.
La vita umana non è “disponibile”
Testamento biologico. Le questioni in gioco
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Sir