Il concetto di laicità appartiene alla struttura fondamentale del cristianesimo: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21). Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca (cf. Benedetto XVI, Deus caritas est, 28). Purtroppo, il confronto sulle grandi questioni che interessano la vita dell’uomo, in tutte le sue età e in tutte le sue espressioni esistenziali, troppo spesso viene relegato in una presunta contrapposizione tra laici e cattolici, dove i cattolici sono considerati dei guastafeste che ostacolano il progresso e mettono il bastone tra le ruote allo Stato laico. È così che ci stiamo abituando sempre più all’emergere di un progetto di vita al di fuori di Dio, persuasi che, per garantire la laicità della democrazia, la fede vada relegata nell’intimo della persona, dimenticando che l’autentica laicità ha radici cristiane e che il vero laico trova nell’ispirazione cattolica (cioè “secondo il tutto”) non solo una verifica della propria identità, ma anche il proprium da porre sulla bilancia delle decisioni democratiche. Purtroppo, anche tra coloro che si professano cattolici, qualcuno pensa a una “zona franca” nel sistema democratico, dove credenti e non credenti si confrontano accantonando le proprie certezze, specialmente quelle della fede, proprio “come se Dio non esistesse”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: non solo assistiamo all’eclissi del senso morale, ma alla “notte della ragione” e alla perdita “delle esigenze della ragione universale” (cf. Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 36), cioè della “consapevolezza critica” nei confronti di ciò che si crede o si pensa.
Di fatto la separazione tra fede e ragione è un dramma, perché ha distrutto la capacità di raggiungere le più alte forme del ragionamento, sottraendo alla dinamica sociale la capacità di soppesare oggettivamente le proprie scelte. In altre parole, per l’oscuramento della ragione non sostenuta dalla fede, l’uomo è insidiato nella sua dignità e nella sua capacità di raggiungere la piena maturità: le fantasie genetiche, il basso indice di natalità, il disprezzo della vita umana, la glorificazione delle devianze sessuali, la corrosione dell’istituto della famiglia, rivelano l’assenza di una educazione al senso della vita, che costringe le nuove generazioni a brancolare nel buio di una “libertà senza verità” e impedisce loro di sperimentare la forza trasformante del vero amore. Da più parti si afferma che è scoccata l’ora di un impegno più forte per superare la pigrizia e la conflittualità sociale, in vista di traguardi condivisi. Ciò richiede la volontà, super partes, di mettere in rete tutte le potenzialità educative e formative disponibili. I giovani infatti non hanno bisogno di spinte trasgressive, ma di maestri che insegnino a ragionare e a gestire al meglio i propri talenti, mediante la capacità di discernimento e il dominio di sé. Le nuove generazioni hanno bisogno della testimonianza di uomini e di donne ben formati, capaci di trasmettere i criteri per riconoscere l’inconsistenza argomentativa dei teorici del “disincanto” e dei “giocolieri del pensiero debole”. Pertanto, di fronte al crescente attacco alla struttura antropologica dell’essere umano, con risvolti sempre nuovi e imprevedibili, è necessario recuperare e ripartire da alcune certezze. Infatti, solo il riferimento a un patrimonio culturale di verità condivise permette, da un lato, di esorcizzare la paura suscitata dagli effetti negativi della globalizzazione, dall’altro, di sconfiggere il “soggettivismo morale e sociale”, vero ostacolo a una misura più alta della qualità della vita, fondata invece su un “ordine etico oggettivo”.