Da questa splendida Valle reatina, chiamata “santa” per i segni suggestivi lasciati dalla presenza di Francesco d’Assisi tra il 1208 e il 1225, sale oggi un “cantico” di gioioso augurio al primo Papa che si è voluto chiamare Francesco.
Dalla loggia principale della basilica di San Pietro, dinanzi ad una piazza che si è riempita in dieci minuti e che applaude travolta dalla sorpresa e dall’emozione, ecco la voce limpida e carezzevole del card. Jorge Mario Bergoglio divenuto Papa Francesco, che esclama: “Fratelli e sorelle, buonasera!”. La mente e il cuore corrono a Poggio Bustone quando il primo Francesco, semplice e povero, quasi esule dalla sua Assisi, esclamò: “Buon giorno, buona gente”.
Abbiamo bisogno di parole buone; sentiamo la necessità di relazioni umane; sogniamo un mondo più accogliente e fraterno. Ed ecco Papa Francesco che, umilissimo, dice: “Vi ringrazio per l’accoglienza… E adesso cominciamo questo cammino, vescovo e popolo, un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia fra noi”.
Come non ricordare la voce del Santo di Assisi che a Fontecolombo scrive la Regola ricopiando il Vangelo che parla di fraternità, che comanda l’amore senza condizioni, che fa sognare un mondo di libertà, di giustizia, di pace. Intorno al Conclave si erano addensate previsioni di ogni colore, e l’attenzione era posta sul prestigio, la notorietà, il peso sociale, l’appartenenza etnica, la collocazione politica, l’abilità gestionale.
Ma, come in quel 1223 a Greccio, Francesco convocò gli abitanti intorno alla grotta e all’altare di un Bambino fragile e senza pretese e cantò la gioia di un Dio che diventa vicino, così il primo Papa che si chiama Francesco, con la spontaneità di un fanciullo, ha pregato e ha fatto pregare con il Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria. E ha pregato per “il nostro Vescovo emerito Benedetto XVI perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca” e ha pregato per “tutto il mondo e tutti gli uomini e donne di buona volontà”.
Poi, prima di benedire – come solo un Papa sa fare – ha chiesto di essere benedetto, come ogni padre, ogni madre, ogni fratello o sorella sa fare. E, allora, c’è stato un minuto – immenso – di silenzio! Momento di speranza, spazio di comunione! Nella quiete di San Fabiano alla Foresta, san Francesco aveva insegnato che il “tu” viene prima dell’“io”, che il donare è più importante dell’avere.
Papa Francesco non ha detto molte parole, ma ha compiuto gesti inattesi e ha fatto intravedere orizzonti inesplorati, ma vivi e sognati dal cuore di tutti. Papa Francesco si è presentato come “vescovo della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese”. Sul petto portava una croce “povera”. Ha salutato familiarmente con “buonanotte” e “buon riposo”. Ha augurato che “questo cammino che oggi incominciamo e nel quale mi aiuterà il mio Cardinale vicario sia fruttuoso per l’evangelizzazione”.
Queste parole, semplici e confidenziali, a 50 anni dal Concilio Vaticano II portano il timbro della collegialità, della partecipazione, dell’apertura, della austerità e sono segnate dalla forza incalcolabile della preghiera. Francesco d’Assisi otto secoli fa ha così segnato la Valle reatina.
Papa Francesco, dono di Dio alla Chiesa, con la stessa semplicità, umiltà e mitezza, aiutaci a riscoprirne le “stimmate” in questo nostro tempo che, con sant’Ignazio, vuole cantare la “gloria di Dio” e, con san Francesco, vuole toccare con mano “il bene e la pace”. Questo lembo di terra reatina ne fa preghiera e augurio.