La tragedia del “troppo tardi”

Commento alla liturgia della Domenica a cura di Bruno Pennacchini XXXII Domenica del tempo ordinario - anno A

Nelle ultime tre domeniche dell’anno liturgico ascolteremo le tre parabole del capitolo 25 del Vangelo di Matteo. All’orizzonte di ognuna delle tre c’è la venuta del Signore, che sappiamo essere certa, ma di cui non conosciamo né il giorno né l’ora e della quale conviene essere in vigile attesa, per non lasciarsi cogliere impreparati, come le cinque ragazze “stolte”, di cui sentiremo nel Vangelo di oggi. Nella liturgia celebriamo la stessa fede, che professiamo nel Credo: “E verrà a giudicare i vivi e i morti”.

La parabola di oggi è detta comunemente “delle dieci vergini”; ma forse sarebbe il caso di chiamarla “la tragedia del troppo tardi”. Infatti la superficialità costò a cinque di loro l’esclusione dal banchetto nuziale, simbolo della vita eterna. A differenza dell’introduzione di altre parabole, questa di oggi comincia con un verbo al futuro: “Il regno dei cieli sarà simile…”. Non si tratta di una sottigliezza erudita; vi si sottolinea piuttosto l’intenzione dell’evangelista di indirizzare l’attenzione dell’ascoltatore verso la conclusione, dove si trova il punto focale del racconto. Il clima generale è quello di una festa di nozze. I personaggi, come accennato, sono dieci damigelle che hanno il compito di fare accoglienza allo sposo e di accompagnarlo nella casa dove è tutto pronto per il banchetto nuziale.

Le lampade erano probabilmente fiaccole, tipo torce, in grado di illuminare la via, e che bisognava di tanto in tanto alimentare con olio. Forse venivano utilizzate anche per animare la successiva festa con danze. Le dieci damigelle sono divise in due gruppi, cinque più cinque. Sorprende che il gruppo qualificato per primo è quello delle “stolte”: in italiano corrente potremmo dire: superficiali, disattente, imprevidenti. Il fatto che siano nominate per prime fa sospettare all’ascoltatore che le cose non finiranno bene. Le altre cinque sono dette “sagge”, perché furono previdenti, pensose: previdero cioè la possibilità di un ritardo, anche prolungato. Per questo hanno fatto scorta di olio. Il ritardo può essere dovuto al mercanteggiare dello sposo con il padre della sposa sull’ammontare del valore matrimoniale; del resto nel Vicino Oriente l’orario è un concetto molto elastico. Il grido che annuncia l’arrivo dello sposo si ode nel mezzo della notte, anziché al calar delle tenebre, come ci si aspettava. Comprensibilissimo dunque che le damigelle prima sonnecchiano e poi si addormentano.

Al risveglio trovano che le torce languono; bisogna dunque alimentarle. Le cinque avvedute hanno modo di farlo, perché hanno la scorta di olio, le altre non possono. L’invito delle sagge alle stolte di andare a comperarsi l’olio non è una cattiveria, ma una misura prudenziale: se l’olio fosse stato diviso non sarebbe bastato a nessuno, e lo sposo rischiava di arrivare al buio e si rovinava la festa. Mentre le stolte vanno in cerca di un negozio di alimentari, aperto a quell’ora, lo sposo arriva. Con l’epilogo l’atmosfera subisce un mutamento decisivo, assumendo una colorazione tragica. Cinque ragazze, abbigliate a festa, di fronte a una porta chiusa, che bussano disperatamente e gridano: “Signore, Signore, aprici!”. Da dentro la voce dello sposo, che le sconfessa: “Non vi conosco”. Si è consumata la tragedia del “troppo tardi”. La parabola ha molte risonanze evangeliche. Al termine del Discorso della montagna abbiamo sentito parlare di un uomo stolto e di uno saggio.

Il primo era un ascoltatore smemorato, che ascoltava senza custodire la Parola ascoltata: la sua casa crollò. L’altro custodì la Parola, roccia incrollabile, e la sua casa rimase salda. Così sono ritenuti saggi quei cristiani che non si lasciano distogliere dal fare la volontà di Dio dal protrarsi del tempo. Il tema centrale della parabola è l’attesa. L’attendere è una dimensione dell’esistenza. Il tempo è un fattore dell’attesa. Il modo di attendere determina la qualità dell’esistenza. Tutti attendiamo qualcosa o qualcuno. Chi non attende nulla è già morto.

Ma la qualità della vita dipende da cosa si attende o da come la si attende. I cristiani della prima generazione attendevano di vedere il regno di Dio venire con potenza. Vale a dire vivevano nella certezza che Dio era profondamente interessato alla loro vita, che stava venendo a renderla eterna, ossia piena, stabile, libera da paure. L’attendere Dio presuppone la fede. Secondo alcuni interpreti cristiani, l’olio delle lampade rappresenta appunto la fede, garantita dalla presenza delle loro opere. Le cinque “vergini prudenti” possono ravvivare le lampade languenti, perché la fede le sostiene, anche se l’inevitabile stanchezza dell’attendere le fa addormentare. Per le culture oggi dominanti, questa attesa non ha alcun senso, perché Dio non fa parte della storia.

AUTORE: Bruno Pennacchini Esegeta, già docente all'Ita di Assisi