L’estate sta diventando “torrida” sul fronte immigrazione in Italia. A Bari è esplosa nei giorni scorsi una violenta protesta degli immigrati ospiti del Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo), che lamentano i ritardi nel riconoscimento dello status di rifugiati: si sono riversati sulla tangenziale di Bari e sulla linea ferroviaria, paralizzando la città e i trasporti. Intanto a Lampedusa è stato soccorso un altro barcone che trasportava 271 immigrati (tra i quali 36 donne e 21 bambini) e i corpi senza vita di altre 25 persone. Non sono ancora state stabilite le cause dei decessi: una delle ipotesi è che siano vittime di asfissia, per mancanza di ossigeno negli stretti spazi della stiva. La procura di Agrigento ha aperto un fascicolo d’inchiesta a carico di ignoti. Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio Immigrazione di Caritas italiana, lancia l’allarme sui rischi di “un effetto domino” delle rivolte anche negli altri centri sparsi sul territorio italiano, a causa del clima di difficoltà, incertezza ed esasperazione che si vive all’interno. E consiglia di correre presto ai ripari con “un grande sforzo di volontà” e “un salto di qualità dal punto di vista etico”. “È una fase molto delicata – osserva Forti -. La violenza non va mai bene, ma se l’accoglienza è strutturata su grandi numeri e protratta per lungo tempo, si rischia di far esasperare gli animi. Bisogna trovare un sistema per disincentivare subito queste forme di protesta. L’incertezza e il disagio in cui vivono queste persone, in gran parte lavoratori stranieri in fuga dalla Libia, alza il tasso di litigiosità e di conflittualità. Allora è richiesto un grande sforzo di volontà da parte di tutti, immigrati e istituzioni”. Forti auspica, a questo proposito, di “rendere le procedure più celeri, perché, nonostante siano state aumentate le Commissioni territoriali, ci sono ancora molte lungaggini burocratiche”; distribuire gli immigrati in gruppi più piccoli sul territorio, come sta facendo la Caritas. Ma soprattutto trovare una “condizione di certezza giuridica per queste persone”: vale a dire, “se in molti casi non è possibile dare una protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria), perché non pensare ad un forma di protezione temporanea, come è stato fatto mesi fa per i tunisini?”. Dai riscontri delle associazioni che lavorano con gli immigrati, risulta infatti che il numero dei dinieghi nel riconoscimento dello status di rifugiato è molto alto: si va dal 40-50% a Trapani al 70% in Lombardia. Ai dinieghi ci si può opporre solo con un ricorso, che però ha alte probabilità di essere rigettato. In questo modo si crea la classica situazione in cui all’immigrato viene dato un foglio di via, si trova nella condizione di irregolarità sul territorio italiano, quindi se viene intercettato dalle forze dell’ordine finisce nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione), le cui condizioni sono tristemente note. Intanto a Lampedusa, dopo due settimane di fermo degli sbarchi, “registriamo purtroppo una tragedia che nessuno avrebbe voluto”, con il recupero dei 25 cadaveri dal barcone appena soccorso. “Questi fatti – commenta Forti – ci dicono che le tragedie non sono ancora finite e dobbiamo fare i conti con arrivi ancora consistenti di gente in fuga dalla Libia, disposta a qualsiasi cosa pur di provare a salvarsi. È necessario tenere alta l’attenzione. L’accoglienza non deve venire meno, e deve sempre essere limitata a pochi giorni di permanenza sull’isola. Lampedusa è stata chiamata dalla storia ad una grande sfida: di fronte ad un dramma umano così vasto, con gente che continua ad attraversare il mare e a morire, non può mancare la solidarietà. Bisogna fare un salto di qualità da un punto di vista etico”.