Tre sono i principali temi che percorrono il Vangelo di questa domenica: la correzione fraterna, il potere della Chiesa di “legare” e “sciogliere”, la preghiera di intercessione. Siamo all’interno del quarto discorso di Gesù nel Vangelo di Matteo, quello più comunitario ed ecclesiale. È nella comunità umana che si sperimenta il peccato commesso da un fratello (non quindi “una colpa”, come traduce invece il lezionario il v. Mt 18,15), è la chiesa che ha il potere di liberare chi è legato, ed è alla comunità dei credenti che viene affidata la sorte degli altri.Il denominatore comune di questo Vangelo sembra proprio essere quello della responsabilità ecclesiale. Non quella demandata agli altri, al parroco o alle buone persone che lavorano in parrocchia, quanto piuttosto la corresponsabilità che lega tutti i battezzati.La prima grave responsabilità riguarda, come detto, il peccato dell’altro.
Chi assiste alla triste esperienza del vedere un fratello o una sorella sbagliare non può tirarsi indietro. Anzitutto deve “andare” (va’, Mt 18,15): abbiamo qui il verbo dell’impegno morale e dell’agire concreto, che troviamo in tante occasioni nelle parole di Gesù: “va’ a riconciliarti con il fratello” (Mt 5,24); “va’ per due miglia” con lui (5,41), “va’, vendi quello che hai” (19,21), e così via. Dopo aver assunto l’impegno di andare fisicamente e psicologicamente verso l’altro, se si vuole aiutare chi pecca si deve farlo con discrezione; senza offendere, e con la carità di chi sa quanto sia facile incorrere nello stesso errore: “chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1 Cor 10,12). Il verbo ammonire che troviamo in Matteo al v. 18,15 è presente – ovviamente nel greco della Settanta – anche in Lv 19,17, quando si dice: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera (ammonisci, correggi) apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui”.
Rimproverare qualcuno per quanto ha fatto non deve essere espressione d’odio o d’ira, ma di compassione e comprensione.Abbiamo a che fare qui con una situazione di una certa gravità, di un peccato importante, se addirittura è prevista l’espulsione dalla chiesa (“sia per te come un pagano o un pubblicano”, Mt 18,17). È qui, proprio in questi versetti, che troviamo una delle due occorrenze della parola ‘”chiesa” in tutti e quattro i vangeli, anche se il nostro lezionario preferisce tradurre diversamente. Conosciamo il caso della risposta di Gesù alla professione di fede di Pietro (“Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa”; Mt 16,18), ebbene, nel nostro testo Gesù dice: “se non ascolterà neppure loro, dillo alla chiesa; se non ascolterà la chiesa”. Nel linguaggio di Matteo chiesa significa la comunità, la chiesa locale, e allude ad una parola aramaica (qahal) che intende proprio il gruppo di fedeli radunati nella sinagoga.
Nella Bibbia è Israele, anzitutto, la chiesa di Dio. Ora, è la chiesa a cui appartiene la persona che sbaglia, a doversi fare carico del peccato: è alla chiesa che spetta l’ultima parola, ed è a questa che è lasciata l’ultima possibilità di aiutare l’altro a salvarsi.Legare e sciogliere. Ed ecco che in questa occasione ritornano quei verbi, “legare” e “sciogliere”, che già abbiamo incontrato nel brano della professione di Pietro a cui si alludeva sopra. Nella tradizione cattolica i nostri verbi sono stati soprattutto applicati alla dimensione sacramentale del perdono (si veda, ad es., il Catechismo universale al par. 553: “Il potere di legare e sciogliere indica l’autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina, e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesù ha conferito tale autorità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli e particolarmente di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno”‘), ma la frase che in Mt 16,19 era rivolta, al singolare, al solo Pietro, ora è invece al plurale e coinvolge tutti i membri della chiesa.
Tutti i credenti hanno ricevuto il potere e il dono della riconciliazione, che poi si mostrerà in modo sacramentale; tutti si devono sentire responsabili della conversione dell’altro, perché a tutti è affidata la possibilità di sciogliere o di lasciare legato. Non si può semplicemente delegare, quando è in gioco la sorte di chi ci sta vicino. Un gesto d’amore può davvero liberare dai peccati.Ecco allora che la chiesa non può non ricorrere anche alla preghiera comune per intercedere a favore di chi sbaglia. Gesù risorto è presente in mezzo a coloro che lo invocano: è la sua ultima parola e la sua ultima promessa nel Vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
La sua presenza garantisce che egli ascolterà quelli che sono concordi nel domandare qualcosa. Per pregare, dice Gesù, bisogna volere la stessa cosa: il verbo sum-foneo, che tanto ricorda l’accordo degli strumenti nell’esecuzione di una musica, spiega che bisogna accordarsi per ottenere. Ancora una volta, alla comunità dei credenti è dato il potere di “sciogliere”, di aiutare chi è nel bisogno, esprimendo così compiutamente la più grande carità. Non quella compiuta nel segreto (“Quando fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra”, Mt 6,3), ma quella di cui oggi c’è forse più bisogno, la carità della responsabilità comune e della corresponsabilità ecclesiale.