“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità”. Così Umberto Eco apre il suo Il nome della rosa, romanzo su un medioevo cupo e pieno di intrighi e biblioteche con passaggi segreti e pericolosi..Ascolteremo in questi giorni che “il Verbo si è fatto carne”, e si rinnova anche quest’anno la fatica di capire cosa significhi questa in apparenza semplice frase.
Il rischio è quello che l’affermazione del Prologo giovanneo diventi solo pretesto per ambientare una storia in un mondo, come quello di Eco, che non c’è più: “ma”, aggiunge il semiologo subito dopo “verità”. Intanto un problema di traduzione per la frase “il Verbo [logos in gr.] si è fatto carne”. Sappiamo che è arduo rendere il termine greco logos; significa: parola, discorso, racconto, detto, domanda, ragione. E noi lo traduciamo con “verbo”, con un prestito dal latino della Vulgata che oggi forse non comunica più nulla: “verbo”‘ nel linguaggio comune è “parte variabile del discorso che indica un’azione o un modo di essere” (Zingarelli). La traduzione migliore potrebbe essere quella che dice della Parola che è diventata carne: così la nuova Diodati; la Abu in lingua corrente si preoccupa di spiegare ancora di più: “Colui che è ‘la Parola’ è diventato un uomo e ha vissuto in mezzo a noi uomini”.
Similmente nella “nuova” traduzione Cei del 1997 si scriveva al v. 14: “E il Verbo si è fatto Uomo”, formula che però verrà certamente corretta in una prossima traduzione, perché troppo interpretativa, per tornare di nuovo a “e il Verbo si fece carne”. A mio modesto avviso, comunque, Logos si spiega meglio – nel Prologo – con Parola. E vediamo perché. ***Detto questo, quanta differenza però rimane tra l’affermazione di Giovanni e il racconto della natività di Matteo o di Luca. Matteo scrive che “[Maria], senza che egli [Giuseppe] la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù” (1,25). E non possiamo riportare tutto il racconto lucano, del quale sono però indelebili immagini dolcissime e drammatiche come quella di 2,7: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.
Eppure dobbiamo tornare anche a quanto scrive Giovanni. L’ambiente in cui è stato composto e a cui si rivolge il Quarto vangelo viene via via identificato dagli studiosi o in quello ellenistico o in quello giudeo-cristiano palestinese. In quale contesto culturale doveva essere meglio compreso il termine Logos usato nel Prologo? Si tratta certamente di una terminologia familiare al mondo ellenistico, è un concetto già noto ai filosofi stoici, citati anche nel Nuovo Testamento (At 17,18). Ma Logos-Parola ha a che fare anche con la letteratura biblica (la Parola-Dabar, il “dire” di Dio con cui fu fatto il mondo: Gen 1,3), soprattutto quella intertestamentaria del libro del Siracide.
“E la Parola si è fatta carne e abitò fra noi” allude senz’altro all’abitazione di Dio in mezzo al suo popolo di Sir 24,3s.: “Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e ho ricoperto come nube la terra. Ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi. […] Fra tutti questi cercai un luogo di riposo, in quale possedimento stabilirmi. Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine, il mio creatore mi fece posare la tenda e mi disse: Fissa la tenda [è il termine usato da Giovanni per ‘abitare’] in Giacobbe”.
La Parola viene da Dio e riposa tra gli uomini.Ma che cosa doveva veramente significare questa espressione per un ebreo che l’ascoltasse, al tempo in cui fu scritta? È utile un confronto con quello che accadde poco prima la composizione del vangelo secondo Giovanni, quando cioè il Secondo Tempio fu distrutto nel 70 d.C. da Tito, al termine della guerra giudaica, e il giudaismo farisaico si trasformò radicalmente. Uno scrittore ebreo dice in una recente introduzione al Talmud, il testo base dell’ebraismo: “Secondo la mia tradizione, Dio si rivela nelle parole, vive nelle narrazioni e assolutamente non si può vedere né tanto meno toccare. Il Verbo, nel giudaismo, non si è mai fatto carne. La volta che Dio si è avvicinato di più a una qualche forma di incarnazione fisica è stato nel Tempio di Gerusalemme, dove la presenza divina era considerata più fisica, palpabile. Ma il Tempio è stato distrutto. Nel giudaismo dunque è la carne che si è fatta parole. E le parole sono diventate per tradizione il rifugio del popolo ebraico” (J. Rosen, Il Talmud e Internet, Einaudi 2001, 59-60).
E possiamo citare anche il grande Elie Wiesel: “Sulle rovine della città di Dio fu ricostruita una speranza, attraverso parole, nient’altro che parole. Che cos’è il Talmud se non un regno fondato sulle parole?” (E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, Bompiani 2000, 101). “La Parola si è fatta carne”, scrive Giovanni: questo confronto ci permette forse di cogliere ancor meglio l’assoluta novità dell’incarnazione. Come ricorda Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte, “per la fede della Chiesa è essenziale e irrinunciabile affermare che davvero il Verbo ‘si è fatto carne’ e ha assunto tutte le dimensioni dell’umano, tranne il peccato (cfr Eb 4,15). In questa prospettiva, l’incarnazione è veramente una kenosi, uno “spogliarsi”, da parte del Figlio di Dio, di quella gloria che egli possiede dall’eternità” (22). Buon Natale a tutti.