Cento anni fa, un modo nuovo di intendere la pace comparve sulla scena pubblica del mondo contemporaneo. E poche affermazioni tratte da documenti pontifici hanno avuto una così grande influenza storica come quella scritta da Benedetto XV il 1° agosto del 1917, quando, a tre anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale, si appellò ai “capi dei popoli belligeranti” per fermare un conflitto sanguinoso che “ogni giorno più” appariva “come un’inutile strage”. Ancora oggi, a distanza di cento anni, quelle parole risuonano, non solo nel discorso pubblico, ma nella coscienza profonda di ogni persona, come un ammonimento di grande importanza morale e politica.
In quella lettera, che evocava il “suicidio” dell’Europa in cui “una follia universale” stava producendo una orribile carneficina, il Papa chiedeva in modo nettissimo una “pace giusta e duratura” che potesse affermarsi grazie ai più importanti strumenti diplomatici del tempo: la richiesta di un arbitrato internazionale, la reciproca restituzione di alcuni territori e la necessità impellente di un disarmo. Di fatto, Benedetto XV chiedeva di sottomettere la “forza materiale delle armi” alla “forza morale del diritto”.
Quelle parole, come è noto, non mutarono il corso del conflitto mondiale. Tuttavia, si sarebbero rivelate profetiche per almeno due motivi.
Innanzitutto, per il giudizio durissimo sulla guerra. I conflitti moderni, infatti, si sarebbero sempre più caratterizzati come delle guerre totali che non avrebbero coinvolto solo gli eserciti ma anche le popolazioni civili, producendo, di fatto, un unico risultato significativo: la morte di milioni di persone innocenti.
L’evocazione di “un’inutile strage”, da quel momento, è diventata una sorta di grido di dolore verso la guerra moderna e ogni tipo di efferata morte di massa provocata dalla modernità nichilista. E non casualmente, Papa Francesco l’ha richiamata in occasione del G20 per denunciare le inutili stragi di migranti sul Mediteranno.
In secondo luogo, quelle parole segnarono l’inizio dell’elaborazione di una nuova teologia della pace. Una novità che arricchì non solo il magistero della Chiesa ma anche la cultura del mondo occidentale, delineando una sfida che, all’inizio del Novecento, sembrava quasi impossibile da vincere. Quelle parole, invece, aprirono la strada a una nuova primavera della pace. Prima di tutto con un’enciclica di Benedetto XV del 1920, oggi quasi dimenticata, Pacem Dei munus pulcherrimum, in cui il Papa ribadì con vigore che il “messaggio del cristianesimo” è un “evangelo di pace”. E poi con una serie di riflessioni successive che avrebbero portato alla Pacem in terris di Giovanni XXIII nel 1963 – autentica pietra miliare di questa nuova teologia della pace -, alle dichiarazioni del Concilio Vaticano II e alle moltissime affermazioni dei Papi che si sono succeduti sulla Cattedra di Pietro fino a oggi.
Una nuova teologia della pace, è bene chiarirlo, che non si fonda sulla base di vaghi propositi ideali, ma su indiscutibili princìpi evangelici: la giustizia, la carità e l’incalpestabile dignità della persona umana.
Mai come oggi, questa teologia della pace va difesa con tutte le nostre forze. Va difesa da coloro che, in modo vile e meschino, compiono brutali atti terroristici contro l’umanità innocente. Va difesa da chi provoca le guerre per una volontà di potenza, di conquista e per interessi economici. E va sostenuta anche con coloro che nel dibattito pubblico sbeffeggiano la pace come un’idea buonista, frutto di un pensiero debole e in nome di un inevitabile scontro di civiltà. Occorre dirlo con chiarezza: cercare la pace non è il prodotto di una civiltà decadente con un’identità fragile. È vero esattamente il contrario: cercare la pace è un esercizio eroico, che richiede un impegno enorme, incessante, quotidiano, e che richiede una forza diversa da quella militare: è la forza della fede; la forza del dialogo; e, come scriveva Benedetto XV, la “forza morale del diritto”.