L’abate benedettino Ildebrando Scicolone, nonostante l’età non più giovanissima, rimane vulcanico come l’Etna presso il quale vive. Palermitano di origine, è uno dei massimi liturgisti italiani, già docente di Liturgia alla Gregoriana e preside della facoltà di Liturgia al pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma, e già abate di San Martino delle Scale (Pa). Si trova in questi giorni in Umbria per predicare un corso di esercizi spirituali a una comunità di religiose a Santa Maria degli Angeli. Basta fare una breve ricerca su Google per imbattersi in più di una accesa polemica contro le sue idee presunte “moderniste” in fatto di liturgia. Ma lui non si scompone, ed entra subito nel vivo del dibattito. “La gente non sa che cosa accade nella messa – dice, tanto per cominciare. – Ci si chiede come celebrare l’eucaristia, non cosa si celebra, chi celebra, e perché”. Pare strano, dopo mezzo secolo di rinnovamento liturgico. Strano, ma vero: don Elio Bromuri infatti ricorda la controversia, scoppiata di recente proprio su La Voce, sul valore o meno della messa della domenica sera in extremis. “Prendere messa la domenica sera è come prendere la metropolitana a Londra: si paga all’uscita” commenta padre Scicolone, che poi aggiunge un’altra metafora: “Se si vede la liturgia come precetto, è come quando si mangia per precetto. Se mangi perché te lo ha prescritto il medico, è segno che sei malato… Il fatto è – precisa, passando su un tono più serio – che non è mai stata fatta, da parte dei sacerdoti, una vera catechesi sulla messa. E pensare che il nuovo rito, nato dal Concilio Vaticano II, rende molto più facile comprendere il senso e il concatenamento dei riti, e il loro scopo”. Con qualche eccezione, ad esempio “nel 1956 il card. Lercaro obbligò i sacerdoti della sua diocesi a tenere ogni domenica per un anno, all’omelia, una catechesi sulla messa. Ma, in generale, ci si è buttati subito sulla riforma, dimenticando che la Costituzione Sacrosanctum Concilium dedica a questo tema i nn. 21-40, ma prima i nn. 14-20 insistevano sulla formazione. Il Concilio afferma espressamente che ‘non si può sperare la realizzazione di tutto ciò [la partecipazione consapevole dei fedeli] se gli stessi pastori d’anime non siano penetrati, loro per primi, dello spirito e della forza della liturgia, e ne diventino maestri’ (SC, n. 14)”.
In varie chiese, un po’ in tutta Italia, si è ripreso a celebrare la messa in latino secondo il rito tridentino. “Un rito della decadenza” lo definisce Scicolone, e non a causa della direzione in cui è girato l’altare o altri aspetti onestamente secondari, ma perché il Concilio di Trento “fece diventare normativo lo schema di celebrazione che era tipico delle messe private. Per di più, non è neppure vero che il sacerdote, anche allora, volgesse sempre le spalle al popolo. Nelle basiliche di San Pietro e San Paolo, ad esempio, per come sono strutturate, il Papa in persona celebrava voltato verso l’assemblea”. L’obiezione dei filo-tridentini è che la liturgia è opera di Dio, quindi non occorre ‘capire’. “La liturgia cristiana – ribadisce l’abate – è un complesso di segni. Ma di quale realtà sono segni? Della Pasqua. Il Concilio ha riscoperto l’unità del Mistero pasquale, che non coincide solo con la morte di Gesù che ‘paga per tutti’ ma comprende l’intero arco degli eventi dalla Passione alla venuta finale nella gloria. Sì, certo, la salvezza e la liturgia sono opere della grazia divina, ma che cos’è la grazia? È l’amore di Dio che ci viene partecipato, la salvezza che ci viene offerta. Se Dio mi parla, io devo poterlo capire. Anzi, lo accolgo con tutti i sensi: l’ascolto, la vista (i colori), l’olfatto (l’incenso), il tatto, perché veniamo in contatto con Dio, anzi addirittura Cristo entra dentro di noi”. Insomma, conclude, “va bene il rinnovamento liturgico, ma non è fine a se stesso. La prima parola del Vaticano II (SC, n. 1) fu: ‘Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno di più la vita cristiana’. La vita!”.