Poche esortazioni come l’incessante invito alla gioia riescono a sintetizzare in un unico concetto l’intera predicazione di Francesco in questo primo anno di pontificato. Il cristiano, dice Papa Bergoglio, è, prima di tutto, “un uomo e una donna di gioia”. Una gioia che non è certamente un sentimento di elettrizzante euforia o di effimera allegria ma è, all’opposto, “un dono del Signore” che “ci riempie da dentro” e non viene da fuori. La gioia, in altre parole, è “come un’unzione dello Spirito” che tocca il cuore nel profondo e che trae le sue fondamenta dal fatto che Gesù è contemporaneamente “con noi e con il Padre”. Dove c’è Cristo, c’è sempre gioia interiore. E proprio per questo motivo, l’annuncio della bellezza del Vangelo non può essere disgiunto da quella gioia cristiana che, come scrisse profeticamente Paolo VI nell’esortazione apostolica Gaudete in Domino, è sempre una “partecipazione spirituale” al cuore di Gesù e una relazione d’amore gratuita e sconfinata che lega il Padre ai suoi figli. Pertanto, non può esserci predicazione, se non si penetra amorevolmente nell’anima e nel profondo del cuore dell’uomo. Un cuore che ormai è sempre più inaridito dagli affanni della vita quotidiana e dal vortice della mondanità. Una mondanità che, come ha denunciato più volte anche Papa Francesco, si annida anche nella Chiesa, soprattutto tra coloro che dichiarano di apprezzare la verità della fede solo a parole e non con gesti concreti. Parole vuote e prive di autentico significato che, nascondendo miseri compromessi con il mondo, servono solamente per mostrare in pubblico la vanità dell’uomo.
Nell’antico Israele, Isaia deplorava quegli uomini che si facevano custodi della purezza della fede solo con le parole, e non esitava a definirli “cani muti incapace di abbaiare”. E chi sarebbero oggi costoro? Sono delle persone tristi e avide, che, avendo il cuore indurito, non sanno più annunciare la bellezza del Vangelo, non sanno più andare verso l’altro, ma sono ripiegati totalmente su loro stessi, seguono soltanto i loro pensieri e cercano solamente “il proprio interesse”. Questi “cani muti” sono tutte quelle persone che hanno smarrito la loro missione; sono quei Pastori che hanno dimenticato il loro gregge; sono quei padri che non sanno più parlare con i propri figli. Saper parlare con saggezza e amore è invece fondamentale in questa nostra società dominata da una profonda superficialità e da una sempre più diffusa volgarità delle relazioni umane. Il chiacchiericcio e il pettegolezzo continuo e assordante che si compie nelle conversazioni private o addirittura sui giornali, le televisioni e su internet, non sono altro che l’anticamera della maldicenza e della calunnia, le quali rappresentano delle gravissime degenerazioni morali della nostra società. Parlar male dell’altro significa, infatti, condannare il prossimo. E condannare il prossimo non significa altro che rinnegare Cristo. Tra tutti i vizi, dice il santo Curato d’Ars, questo è “quello più comune, quello più universalmente diffuso e, forse, il peggiore di tutti”. Ecco allora che la gioia del credente non è certo la rappresentazione di un sentimento effimero ma la concretezza di una testimonianza di fede e la risposta autentica al degrado morale della nostra società. Perché “un cristiano può mancare di tutto”, diceva Paolo VI, ma “se il cristiano è unito a Dio nella fede e nella carità, non può mancare di gioia”.