di Maria Rita Valli
“Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere”.
Non è la citazione di una femminista cattolica ma un passaggio della Evangelii gaudium (il n.104), uno dei tanti testi in cui Papa Francesco chiede alla Chiesa di farsi carico di una piena accoglienza e valorizzazione della donna.
Quando si tocca questo tema c’è chi sorride, o alza le spalle, o reagisce con insofferenza, anche tra i cristiani che si impegnano a vivere il Vangelo. E questo è un segnale di quanto la cultura, anche occidentale, sia ben lontana dal riconoscere tale pari dignità.
Sabato 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e quanta strada ci sia ancora da fare ce lo ricordano continuamente le cronache dei femminicidi, delle violenze sulle donne nei luoghi di guerra, dei matrimoni forzati anche di bambine, le lotte e le conquiste di libertà civili da parte delle donne di Paesi islamici.
Martedì scorso su Avvenire suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata e presidente dell’Associazione Slavers no more-Mai più schiave, commentando i funerali delle 26 giovani donne nigeriane che hanno perso la vita in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia (due di loro erano incinte e della maggior parte non si conosce neppure il nome) si chiede “fino a quando la nostra società del consumo, del benessere e del piacere, tollererà la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione?”, “Fino a quando i 9 milioni di ‘clienti’ in Italia, al 90% cristiani, continueranno impuniti a sostenere questo mercato di vite umane?”. L’ipocrisia della nostra società si può sintetizzare nella frase tipica: “in fondo se l’è cercata”, “in fondo è il mestiere che si è scelto”.
In fondo quando diciamo così allontaniamo da noi la responsabilità di dire con chiarezza che è sempre sbagliato approfittare di chi è in una situazione di debolezza e non fa differenza se il debole è un bambino, un disabile, un anziano, un povero, un immigrato. La lingua italiana conosce solo il maschile e il femminile, e la declinazione al maschile di questo elenco ci suggerisce una sottolineatura: quando a queste condizioni si aggiunge il fatto di essere donna la debolezza è ancora maggiore.
L’invito di Papa Francesco a comprendere sempre più e a difendere sempre più la (pari) dignità della donna è un invito a porsi alle “frontiere” dell’umanità.
Restituire piena dignità alle donne vuol dire restituire piena dignità all’uomo, vuol dire lavorare per un mondo più giusto, per un mondo di pace, per un mondo fondato sull’amore, il rispetto, l’accoglienza, la solidarietà.
La citazione della Evangelii Guadium con cui abbiamo iniziato prosegue sottolineando che “Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone indiscussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere”.
Papa Francesco ricorda alla sua Chiesa che il potere è dato per il servizio. Se questo non è nella politica, nella società, nelle istituzioni, nella Chiesa, il risultato è lo sfruttamento del debole da parte del più forte.
Ma il Vangelo ci dice che un altro mondo è possibile, e la storia ci mostra che i semi del Vangelo germogliano anche dove non te lo aspetti illuminando i passi incerti dell’umanità segnata da violenze inaudite cui si oppone la forza debole dell’amore.
Ce lo ricorda la storia della Rivoluzione russa sconfitta da un popolo che pure oppresso non ha rinunciato alla sua fede, ce lo ricordano le donne tunisine che hanno conquistato la libertà di sposare chi vogliono anche fuori dall’islam, ce lo ricordano le donne che trovano il coraggio di denunciare l’uomo da cui subiscono violenza, ce lo ricordano le donne ridotte in schiavitù sulle nostre strade che trovano l’occasione e il coraggio di sfuggire ai loro aguzzini.