Suona fortemente provocatorio il commento di Vito Mancuso, su La Repubblica del 21 aprile scorso, ad una ricerca dell’Università di Chicago sulla fede in Occidente. Uno studio che – come riassume lo stesso Mancuso – mostra che la fede religiosa “va lentamente ma progressivamente diminuendo” e interessa soprattutto gli anziani. In chi crede, ancora maggioranza in 22 Paesi su 30 di quelli esaminati, avanza “la figura di un Dio personale e su misura”.
Tendenze note a chi studia l’argomento e forse ben percepibili anche dai non addetti ai lavori: non è difficile, infatti, cogliere come l’elemento della fede e della religiosità, nel nostro mondo occidentale, venga drasticamente influenzato da una mentalità soggettivistica e soprattutto dall’individualismo dilagante. Scenari di fondo che confliggono con – ad esempio – l’autentica adesione alla prospettiva cristiana, dove l’“io” diventa spesso “noi” e dove l’individuo è costretto a misurarsi con un Altro che ha volto e nome.
Non a caso, ancora Mancuso sottolinea altri due dati colti dallo studio americano. Il primo è relativo a “tutti i principali Paesi europei”, dove, “se si sommano i credenti convinti agli atei altrettanto convinti, non si raggiunge la metà della popolazione”. Tutti gli altri non prendono posizione. Il secondo dato è quello per cui “a fare le spese di questa crescente perplessità è soprattutto la fede cattolica nella sua configurazione dogmatica e teista”. E “la perdita della fede in Dio durante il decennio 1998-2008 risulta più alta proprio nei Paesi tradizionalmente cattolici”.
Lo scenario è quello di una religiosità su misura, a sfumature di grigio, che teme i contorni netti, il sole e l’ombra. Uno scenario che provoca necessariamente i cristiani, impegnati a far risuonare in ogni tempo l’annuncio di Gesù e a far conoscere il suo volto. E qui stupisce che Mancuso finisca con puntare subito il dito sul Vaticano, che non correrebbe “ai ripari”, lamentando in proposito la mancata abolizione del celibato e dell’apertura “al diaconato e al cardinalato femminile”, le “leggi anacronistiche in tema di morale sessuale”, addirittura l’istituzione del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, “centro di potere” e nuovo “ministero clericale”.
La semplificazione appare eccessiva e, come detto all’inizio, provocatoria. Forse una semplificazione dovuta alla brevità di un articolo di giornale, ma certo fuorviante. La bussola di un’analisi e di una riflessione approfondite e corrette sembra smarrita.
Oggi vi è certo l’urgenza che la Chiesa cattolica con la sua gerarchia, anche il Vaticano (semplificando, il sistema ordinato che governa la gerarchia ecclesiastica), in questo caso, consideri attentamente le trasformazioni della società e della cultura, cercando soluzioni al rischio d’insignificanza, cioè al rischio che parole e gesti della Chiesa non parlino più all’uomo contemporaneo e, dunque, il messaggio di Gesù non possa essere trasmesso. Ma non siamo di fronte principalmente a una questione di norme (senza peraltro voler banalizzare qui discussioni profonde in corso proprio su questo piano). Non basterebbe certamente abolire il celibato o ordinare donne sacerdoti per sistemare le cose.
Da tempo molti cristiani e anche autorevoli esponenti della gerarchia cattolica, Papa compreso, raccogliendo le inquietudini del nostro tempo, levano la voce nella direzione di un rinnovamento della comunità e della sua testimonianza. In fondo è di nuovo l’istanza profonda che fu alla base del Vaticano II, in un contesto culturale – il nostro – che, rispetto a cinquant’anni fa, ha perso molta della familiarità con i temi e le stesse parole cristiane.
Qui è il nodo: recuperare terreno sul piano della cultura, riproporre oggi in modo efficace la conoscenza e il discorso su Gesù, “aggiornare” la testimonianza, della comunità intera, gerarchia naturalmente compresa. Questo passa dal cambiamento delle norme? Forse anche. Ma certo il problema è più complesso e talvolta non semplificabile.