La riunione dei ministri delle Finanze e dell’Economia dei Paesi del G7, ospitata a Lecce lo scorso fine settimana, si è conclusa con un documento ufficiale che, come sempre in queste occasioni, non aggiunge niente di nuovo. I Paesi del G7 riconoscono i primi timidi segnali di ripresa dell’economia. Tuttavia i ministri si dicono cauti soprattutto perché il peggio sul mercato del lavoro deve ancora venire: in genere l’occupazione e la disoccupazione reagiscono con ritardo alla crisi della produzione e, spesso, continuano a peggiorare anche nelle prime fasi della ripresa. Se a ciò si aggiunge che le misure intraprese dai Governi per limitare i danni sul mercato del lavoro sono senza precedenti, si capisce che il cielo non è ancora azzurro, tutt’altro! Tali misure infatti sono palliativi temporanei che possono solo ritardare, ma non evitare quelle necessarie ristrutturazioni, spesso dolorose in termini occupazionali, che ogni recessione porta con sé. Bisogna infatti rendersi conto che senza quelle ristrutturazioni, quella ‘distruzione creatrice’, la ripresa non ci sarebbe. È tramite esse che la produttività nell’economia ricomincia a crescere, portandosi progressivamente dietro gli investimenti, il lavoro, i consumi. Questo meccanismo dell’economia capitalistica, che ha trovato negli Usa la sua massima applicazione, è la molla propulsiva dello sviluppo umano degli ultimi due secoli. Molto probabilmente neanche questa crisi riuscirà a fermarlo. E tuttavia dal comunicato del G7 – ma soprattutto dai retroscena del vertice, di cui i giornali di tutto il mondo abbondano – sembrano emergere due anime tra le grandi potenze. Da un lato gli Usa e il Regno Unito hanno tenuto a ribadire che il vento non è ancora girato e che le politiche eccezionali vanno mantenute anche nei prossimi mesi, per non strozzare sul nascere la ripresa. Dall’altro la Germania e – sembra anche – la Francia hanno sottolineato che mantenere per così lungo tempo una intonazione tanto espansiva sia della politica fiscale che di quella monetaria rischia di accendere il fuoco dell’inflazione, che diventerebbe sempre più difficile da combattere, con livelli di indebitamento pubblico eccezionalmente alti. Entrambe le posizioni ci sembrano ragionevoli: quella anglosassone perché consapevole della gravità dello Stato dell’economia mondiale; quella europea perché giustamente preoccupata per gli oneri che questa crisi rischia di creare alle generazioni future. Eppure c’è una sottile ragione che ci fa propendere per la posizione tedesca: non vorremmo che questa crisi fosse passata invano. Si ha l’impressione che molti vogliano subito voltare pagina, senza affrontare la dura realtà: i politici, con la teoria che il peggio è alle nostre spalle, destano il sospetto che lo dicano quasi per evitare le dolorose riforme che devono imporre alle loro economie malate; i banchieri delle grandi banche americane, che addirittura corrono a restituire i soldi che il bilancio federale americano ha prestato, destando anche qui il sospetto che lo facciano per non subire le limitazioni ai loro ricchi premi di produttività che Obama vorrebbe imporre alle imprese che godono di aiuti di Stato. Insomma c’è aria di smobilitazione dalla crisi. Ma qui si rischia di dimenticare perché siamo arrivati a questo punto. E soprattutto, con la posizione anglosassone, continuando a drogare l’economia con liquidità a costo zero (come fanno attualmente le banche centrali) e con politiche assistenziali senza una strategia di uscita da esse (come fanno i Governi), si rischia di porre le basi per una nuova bolla speculativa. Sarebbe la terza in 13 anni, dopo quella della new economy di clintoniana memoria e quella immobiliare, legata a Bush. Siccome, come tutte le bolle, anche questa sarebbe destinata a scoppiare, la domanda che ci poniamo è la seguente: possibile che il mondo non sappia crescere senza creare con lo sviluppo anche i germi del suo annientamento? A questa domanda è difficile dare una risposta solo con i numeri dell’economia: ci sono anche questioni etiche da mettere in campo. Non dimentichiamolo, qualora qualcuno volesse farci credere che in fondo anche a questa crisi si adatta bene l’espressione inglese business, as usual (il solito business). No, non c’è niente di più inusuale della crisi che stiamo vivendo!
La crisi esiste ancora
Al recente G7 dell'economia sono emerse due diverse posizioni dei Governi nei confronti della soluzione della crisi. Il rischio è che si eviti di vedere dov'è il 'vero' problema
AUTORE:
Nico Curci