Dopo la sentenza della Corte costituzionale sulla questione di incostituzionalità di alcuni articoli dello Statuto regionale sollevata dal Governo vi sono state reazioni di giubilo e di vittoria da parte di esponenti della maggioranza con toni trionfalistici, persino ridicoli. L’arena politica è sembrata come quella del calcio. Si gioca per vincere e si rischia di vedere schierati in campo persino gli arbitri. La faccenda, invece, è seria e penosa, per lo spettacolo di divisione e frammentazione della politica, non solo tra blocchi e partiti ma all’interno degli stessi. C’è anche disagio nel constatare l’approssimazione o forzatura delle scritture statutarie delle regioni che si prestano a difformi interpretazioni (come è successo per quasi tutti gli statuti regionali), e per la distanza che ciò comporta tra istituzioni e cittadini.
Quelli che hanno detto che la Consulta ha dato ragione ai difensori dello Statuto, tra l’altro, dovrebbero prendere atto che un articolo, il 66, è stato bocciato e il comma 2 dell’articolo 9 che riguarda le convivenze diverse dalla famiglia, non è stato considerato “lesivo” della Costituzione solo per il fatto che “questo tipo di enunciazioni statutarie – si legge nella sentenza – esplicano una funzione di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa”.
Ciò detto, a proposito del trionfalismo della maggioranza regionale e dei fautori dello Statuto, che si intende portare a casa così com’è nel più breve tempo possibile concludendo un’operazione di real politik (atta a garantire l’aumento del numero dei consiglieri, vero interesse dei più), si può tranquillamente affermare che le posizioni dei cattolici, sostenute in questa sede e in sedi di partecipazione, di confronto e di dibattito, sono rimaste inalterate. In molteplici occasioni le associazioni cattoliche si sono dichiarate contrarie all’aumento dei consiglieri regionali, data l’esiguità del numero degli abitanti dell’Umbria, contrarie anche all’assenza di un riferimento ai due principali rappresentanti della cultura umbra Benedetto di Norcia e Francesco d’Assisi, per i quali si stanno raccogliendo firme nelle parrocchie, e contrarie all’articolo 9 comma 2 per lo stravolgimento della concezione della famiglia con la dichiarazione d’intenti a favore delle convivenze diverse dalla famiglia.
Che cosa significhi questo riferimento, che non è incostituzionale perché non costituisce una norma in senso pieno, è presto detto se si vanno a leggere i manifesti dei Ds per la promozione dei Pacs per rendere possibile a “Marco e Matteo che condividono casa e sentimenti” di poter condividere anche diritti sociali, esenzioni fiscali, accesso a benefici di legge ecc., insomma, ad essere trattati come fossero una famiglia. Liberi, naturalmente i Ds, di scegliere questa strada di promozione ed emancipazione sociale, insieme a rifondatori, comunisti, socialisti, verdi, e radicali. Ma liberi anche altri, tra cui in prima fila i cattolici, di dire che questa strada porta a indebolire la famiglia, a disperdere risorse di cui le famiglie avrebbero bisogno, a disorientare i giovani, a favorire per legge l’egoismo edonistico fine a se stesso.
A questo punto, nei modi corretti della democrazia, senza forzature polemiche, le posizioni di critica rimangono e avranno un peso nella vita culturale e sociale prossima, anche perché non si potrà fare astrazione dal contesto internazionale in cui veleggia un ideologismo secolarista e una deriva radicaleggiante, cui sarà bene porre un freno per impedire il disperdersi di alcuni fondamentali valori propri della cultura europea. A proposito dei vescovi, chiamati in causa, forse è bene ricordare che nessuno più di loro è geloso della salvaguardia della laicità dello Stato e della libertà politica e di coscienza di tutti i cittadini.
Le motivazioni della Corte Costituzionale
La Corte costituzionale si è pronunciata sulle obiezioni di costituzionalità che il Governo aveva sollevato in merito a cinque articoli dello Statuto regionale. La sentenza numero 378 del 29 novembre (pubblicata il 6 dicembre) dichiara “non fondate” tre questioni (relative agli articoli 39 comma 2, 40 e 82), “illegittimo” l’articolo 66 e ‘inammissibile’ la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 2, relativo alla tutela delle convivenze. Ha inoltre dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal consigliere regionale Carlo Ripa di Meana. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso del governo contro l’articolo 9 comma 2 che tutela forme di convivenza diverse dalla famiglia. La Consulta ha spiegato che la Regione esercita la propria autonomia politica quando nello statuto scrive articoli che esprimono “finalità da perseguire”.
Si tratta però, afferma la Corte, di norme alle quali “non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica” e dunque tali da non poter entrare in contrasto con la Costituzione. Per la Corte “tali proclamazioni di obiettivi e di impegni” (quali sono i primi 19 articoli dello statuto umbro, compreso l’articolo 2 sulla identità della regione) non possono neppure “essere assimilati alle cosiddette norme programmatiche della Costituzione”. E aggiunge che “non siamo in presenza di Carte costituzionali ma solo di fonti regionali” cioè di statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono essere in armonia con “la Costituzione”.
Illegittimo l’articolo 66 che stabilisce l’incompatibilità della carica di componente della Giunta con quella di consigliere regionale. Si tratta di materia che la Costituzione riserva alla legge regionale, scrive la Consulta, quindi va tolta dallo Statuto. Con l’articolo cancellata la figura del “consigliere supplente” contestata perché andava ad incrementare il numero dei consiglieri regionali. Dei tre articoli “salvati” dalla Corte due riguardano la potestà normativa della Giunta (la sentenza ne chiarisce il limite) e uno è relativo alla Commissione di garanzia statutaria. Norme di non così forte rilevanza politica (tanto che su di esse il dibattito è stato minimo o nullo) come lo sono le altre due sulle quali si è concentrato il dibattito.