Centottantuno pellegrini, di cui quattro sacerdoti, sette autisti di quattro pullman, cinque cuochi e 110 chilometri di cammino diviso in cinque giorni. Sono questi i dati del pellegrinaggio a Santiago di Compostela svoltosi dal 2 al 12 agosto per i ragazzi della diocesi di Perugia. Dopo numerose ore di viaggio e una tappa francese, questi ragazzi sono giunti alla linea di partenza, la cittadina spagnola di Ourense.
È un grande gruppo, ed è per questo che viene suddiviso in altri piccoli gruppi chiamati “fraternità” formate al massimo da 14 componenti. Ognuna di esse ha due guide: colui che funge da “Pietro”, a cui gli organizzatori fanno appello per dare le informazioni generali, e colei che fa da “Maria”, guida spirituale dedita alla preghiera che sceglie i momenti più adatti per poter pregare insieme, in comunione, in cui ogni fratello possa far affidamento al prossimo nella preghiera. Per cercare di essere il più vicino possibile ai pellegrini di una volta, era stato suggerito non portare soldi personali né cellulare: i “Pietro” avevano a disposizione dei cellulari e dei soldi ricavati dalla quota d’iscrizione per poter fare la spesa per e con la fraternità.
È stato un modo per potersi abbandonare davvero nelle mani di Dio ed entrare nella precarietà, una precarietà quotidiana e scomoda, che non prevede docce sicure alla fine di lunghe giornate di viaggio, non prevede letti, ma solo pavimenti scomodi, e alcune volte non prevede nemmeno il cibo. Eppure duecento persone non sono poche e si sono messe tutte in viaggio. Per qualcuno era la prima esperienza, per qualcuno la centesima, e c’era chi partiva per sapere un po’ più di quel Dio tanto chiacchierato, chi per confermare che quel Dio c’è davvero, e si manifesta sempre in un modo diverso, semplicemente perché noi stessi siamo sempre diversi. C’era anche qualche giovane partito per altri motivi: chi per scappare dalla noia e dal grigiore quotidiano, chi per conoscere gente nuova, chi per dimagrire (110 km a piedi dovranno pur produrre qualche effetto), chi invece per poter tornare soddisfatto di se stesso perché ha fatto il celebre Cammino di Santiago e ne è uscito vivo. Ma tutti, in fondo, hanno potuto toccare quel qualcosa di profondo che spesso sfugge mentre si è immersi nella foschia, nella nebbia. Ed è proprio nel momento in cui l’uomo non cerca di sistemarsi al meglio e stare bene che c’è Qualcun altro che prevede e che sa quali siano i bisogni da soddisfare, perché a nessuno è mancata una doccia, o un posto in cui poggiare materassino e sacco a pelo o che rimanesse un giorno senza i tre pasti principali. Anzi, ci sono stati anche momenti di svago: un pomeriggio intero in piscina, un altro pomeriggio nelle spiagge dell’Oceano Atlantico e una giornata dedicata al gioco chiamato paintball: una grandiosa battaglia fatta a squadre in cui l’obiettivo è colpire il nemico con una pistola carica di vernice.
E camminando nei sentieri spagnoli, quando ad ogni passo fatto si è sempre più vicini alla meta, quando spariscono conchiglie “direzionali” per un chilometro, e il fisico sente la stanchezza ad ogni minimo movimento, la preghiera si fa più intensa. Una preghiera di aiuto, e una preghiera di ringraziamento perché quel cammino pieno di salite e discese, sassi, mosche fastidiose, escrementi maleodoranti, capisci che non è altro che il cammino della vita, in cui le conchiglie gialle, anche appena intraviste nella nebbia, possono salvarti. Un frutto raccolto nella gioiaCammino di Santiago: l’arrivo alla metaArrivare a Santiago dopo cinque giorni di dura fatica è emozionante. Prima di entrare nella città, ognuno di noi aveva indossato la maglietta, di colore verde, che all’inizio del viaggio ci avevano consegnato insieme a bisaccia, cappello e bastone. Abbiamo formato una grande colonna, simile ad una processione, cantando e suonando con chitarre, cembali e nacchere, tingendo la città di verde.
Dire cosa ogni singolo abbia potuto provare nel momento dell’entrata nella città non è affar semplice. Tutta la gioia è scaturita in tanti balli proprio al centro della piazza davanti al santuario, sotto gli occhi sbigottiti di tutti, di turisti, di altri pellegrini, di abitanti stessi di Santiago, tanto che quando passavamo per le viuzze della città le signore che ci vedevano si facevano il segno della croce. Ed è quando si arriva che si capisce l’importanza del Cammino: ciò che davvero fa maturare e crescere è il peregrinare stesso, non l’arrivo. La meta, però, è fondamentale, altrimenti il significato stesso del cammino non c’è, si perde il senso dell’orientamento, e se la bussola non punta più a nord ogni posto vale l’altro, la direzione in cui andare cambia continuamente e si rischia di non arrivare mai.
Mettersi in viaggio non è molto semplice, “partire è un po’ morire”, diceva un vecchio proverbio. Partire, però, può essere una nuova nascita, non senza difficoltà, ma sempre con la speranza di arrivare alla meta, all’obiettivo. Così ognuno di noi ha potuto toccare i frutti del pellegrinaggio. Frutti per ognuno diversi, chi ha imparato ad amare il fratello anche quando ruba i biscotti a colazione, chi è riuscito a pregare con serenità, chi ha chiesto perdono, chi ha perdonato, chi è stato colpito da parole delle catechesi o delle eucarestie, chi, confessandosi e ricevendo l’indulgenza, si è sentito come ricaricato. Ma in fondo il vero frutto, ciò che abbiamo davvero incontrato a Santiago, sono amici nuovi con la sua stessa voglia di affrontare la vita quotidiana insieme a Gesù.