Il recente rapporto del Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza Crc, dopo l’affermazione che circa due milioni di bambini vivono in Italia in povertà, riporta la notizia che altri cinquecentomila sono costretti a lavorare tutto il giorno e un milione di casi di bambini che sono testimoni di atti di maltrattamento effettuati contro la madre o i fratelli (forme, queste, di abuso meno conosciute, denominate ‘violenza assistita’). Le violazioni in Italia nei confronti dell’infanzia sono indubbiamente diverse da quelle commesse nei Paesi in via di sviluppo, rimane però il fatto che milioni di bambini ogni anno sono vittime di abusi, sia fisici che mentali, siano essi stranieri che italiani, indipendentemente dal sesso. Il comune denominatore di questo ignobile sfruttamento è rappresentato dalla povertà: i bambini vanno a lavorare perché contribuiscono al mantenimento della propria famiglia. La paga che essi percepiscono è basilare per la sussistenza quando i genitori non riescono da soli a sbarcare il lunario. Il paradosso è che in molti casi gli adulti rimangono disoccupati, mentre i loro figli riescono a trovare un’occupazione. I minori, d’altronde, non solo vengono retribuiti molto meno dei genitori, ma non avanzano rivendicazioni sindacali e possono pertanto essere sottoposti a qualsiasi forma di abuso, anche sessuale. In queste ultime settimane sono stato profondamente turbato e ho meditato a lungo su uno sconcertante articolo di Giuseppe Brunetta su Vita pastorale n. 7, dal titolo ‘Bambini in guerra: vittime e carnefici’. L’autore, dopo una minuziosa esposizione della problematica a livello mondiale, si chiede: ‘Che differenza passa tra i morti causati dai nostri minorenni nelle varie strutture dei nostri contesti sociali e quelli provocati dai kalashnikov nei Paesi del Sud America o in Africa?’. Le differenze con i misfatti nazionali dei nostri minorenni, dati in pasto ai loro coetanei attraverso le foto dei cellulari, con i ragazzi delle medie in Italia o con le bande che si fronteggiano a sbarre e coltelli fuori e dentro le scuole e le discoteche domestiche, pare non esistano più. Ma come mai, se sono figli di ‘buone famiglie’, ammazzano l’undicenne coetanea, di cui ha abusato a turno tutto il branco? Figli di buona famiglia, di noti ‘integerrimi professionisti’? Cosa s’intende per ‘buona famiglia’, per ‘integerrimo professionista’ che abbia un figlio che pratica questi ‘giochi’? La violenza è trasversale, non è monopolio delle degradate periferie; è globalizzata sia per classi di età che per tipologie: vi sono tifosi annoiati che amano l’orrido, la macabra crudeltà di infierire sulle vittime prescelte; vi sono quelli affetti da un bullismo irrazionale che diventa spesso legge di convivenza del gruppo, meglio del branco. I nostri ragazzi hanno già un motto: ‘vivere da grandi’. Autonomia e indipendenza sono spesso la norma dei gruppi di questa età: sanno che le canne fanno male eppure le fumano, come sanno che ubriacarsi fa male eppure si ubriacano, rubare è male eppure rubano, avere rapporti sessuali non protetti è rischioso eppure… quanto prima tanto meglio… e via di questo passo. Vogliono fare violenza con il bullismo per essere ammirati, per diventare leader, per essere attraenti e strafottenti. E gli stupri del branco? Meglio se ripresi con il cellulare e poi scaricati su internet: il passaparola tra compagni e amici fa il resto… e così cominciano i primi passi verso L’isola dei famosi, per poi essere candidati al Grande Fratello.
Infanzia violata
AUTORE:
' Pellegrino Tomaso Ronchi