“Il Signore preparerà su questo monte un banchetto, di grasse vivande, per tutti i popoli…eliminerà la morte per sempre, asciugherà le lacrime su ogni volto, farà scomparire da tutto il paese la condizione disonorevole del suo popolo”. Si apre con queste parole la profezia di Isaia che abbiamo ascoltato. E’ il sogno del grande profeta. Lo era di tutti i profeti e delle varie generazioni di Israele: Gerusalemme, città della pace, città agognata da tutti i popoli della terra. Isaia, in un altro passo, scrive: “Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te”.
Le parole del profeta vanno oltre il suo tempo e colgono un sogno iscritto nel profondo del cuore degli uomini di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni fede. In tanti oggi hanno bisogno di una città pacificata. Ne hanno bisogno i Balcani, ne hanno bisogno il Medio Oriente e l’Africa, l’America Latina e l’Estremo Oriente. Ne ha bisogno il mondo intero. La Scrittura ci presenta Gerusalemme, simbolo di ogni città, ove il Signore ha preparato un banchetto per tutti i popoli; lì vi sono vita piena, pace duratura, amicizia profonda e perenne. Potremmo dire che la vita e la pace sono già preparate per gli uomini. Il Signore stesso le dona. E non sono lontane.
Il problema nasce dal rifiuto degli uomini ad accoglierle. La vita e la pace sono alla nostra portata. Quando le vogliamo le otteniamo. Ma noi, preoccupati in modo eccessivo dei nostri affari, non di rado disprezziamo e rifiutiamo tali doni. È la difesa di noi stessi che ci allontana dalla pace. È emblematica la parabola tratta dal Vangelo di Matteo. Il protagonista è un re il quale, dopo aver preparato un banchetto di nozze per il figlio, invia i suoi servi per chiamare gli invitati. Questi ultimi, dopo aver ascoltato l’invito, lo ricusano. Ognuno ha il suo da fare: chi nel proprio campo, chi in altri affari, tutti comunque sono concordi nel rifiuto. Ma il re non si arrende; insiste e manda di nuovo i servi a rinnovare l’invito. Questa volta gli invitati, non solo disattendono la proposta del re, ma giungono a maltrattare e persino a uccidere i servi.
Il re, sdegnato, fa punire gli assassini. Non dimette tuttavia il desiderio di accogliere uomini e donne al suo banchetto. Manda altri servi, con l’ordine di rivolgersi a tutti coloro che avrebbero incontrato nelle strade e nelle piazze, senza alcuna distinzione. Questa volta l’invito è accolto e la sala si riempie di commensali; il Vangelo nota che sono “buoni e cattivi”. In quella sala non ci sono solo i puri e i santi. Anzi, a sentire altre pagine del Vangelo, si direbbe che in genere si tratta di masse di poveri e di peccatori. Per il Vangelo tutti sono invitati e tutti sono accolti; non importa se si hanno meriti o meno, e neppure se si è a posto o no. Conta una sola cosa: ascoltare e accogliere con riconoscenza l’invito.
Certo, l’invito indiscriminato poteva far credere ad ascoltatori gretti, e un po’ tutti lo siamo, che la condotta delle persone chiamate al banchetto non ha alcuna importanza. La parte finale della parabola vuole evitare questo equivoco e afferma che è necessario vestirsi con “l’abito nuziale”. In Oriente l’ospite, chiunque fosse, era accolto con ogni onore: veniva lavato e vestito prima di essere introdotto nella sala per il pranzo. Chi si sottraeva a questa usanza mostrava di credere suo diritto un’accoglienza che era totalmente gratuita. Insomma, davanti a Dio nessuno può vantare diritti, e tutti dobbiamo ricevere la veste che egli ci dona.
L’abito nuziale è la misericordia di Dio che si riversa sull’invitato sino a coprire tutte le sue colpe. Chi accoglie questa veste è “adatto” alla vita; quell’invitato non avendola accolta non poté restare nella sala. Solo chi si riveste della pietà di Dio e chi accoglie il Vangelo annunciato e predicato può restare e partecipare al banchetto del regno. Costoro sono una “moltitudine immensa – scrive l’Apocalisse – di ogni nazione, razza, popolo e lingua stavano in piedi davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide” (7,6). È il sogno per il mondo intero che la liturgia di questa domenica ci dona.