Mentre le cinque navi con i soldati italiani si avviavano in mare aperto verso il porto di Tiro nel sud del Libano, molti hanno sentito qualche brivido sulla schiena riandando con la memoria a eventi bellici lontani e vicini, e noi con loro, dal profondo del cuore, ci auguriamo un esito rapido e felice. I tempi che attraversiamo, infatti, sono un mare aperto ad ogni possibile evento, soprattutto su quei fronti in cui la violenza e la voglia di sopraffare l’altrui pretesa o ragione è talmente incandescente che si percepisce anche a distanza. Ma non c’è solo il fronte esterno che ci chiede l’impegno di garantire la continuazione di una precaria tregua, dopo una guerra che non ha avuto vincitori né vinti. Dobbiamo prendere atto che vi sono anche fronti più prossimi, interni alla nostra società ed al vivere quotidiano. Le vacanze, fatte o non fatte che siano, sono passate con uno strascico di vicende delittuose e dolorose che hanno portato ad innalzare un muro di separazione all’interno di un quartiere di Padova per circoscrivere una zona turbolenta e pericolosa, a predominante presenza di immigrati. Nella nostra terra umbra un padre arriva ad uccidere un figlio, a Brescia in pochi giorni succede una catena di delitti e una giovane donna viene uccisa in una chiesa mentre accende un cero alla Madonna. Si corre il rischio di perdere la testa e di doversi esprimere come ha fatto don Gualtiero Sigismondi al funerale del piccolo Tommaso, vittima della furia paterna, quando ha invocato il perdono di Dio ‘perché non sanno quello che fanno’. Benedetto XVI ha ricordato recentemente (20 agosto) che per non perdere se stessi si deve seguire il monito di san Bernardo a Eugenio III: ‘Respice stellam, voca Mariam’ (Guarda la stella, invoca Maria), accompagnato dalla critica all’eccessivo attivismo. L’affannosa corsa quotidiana verso le tante cose da fare e da avere e la fretta di arrivare prima degli altri ai traguardi prefissati estraniano la persona da se stessa e la rendono una macchina che gira senza sapere, alla fine, perché. Accade come quando un naufrago si agita tra le onde in mare aperto dove non c’è una tavola cui aggrapparsi. Viene in mente il turista tedesco del nostro Trasimeno inghiottito alcune settimane fa dalle onde mentre cercava di afferrare il gommone sfuggitogli di mano, spinto sempre più lontano dal vento. Alcuni filosofi hanno usato il naufragio come immagine per indicare il rischio dell’attuale società priva di saldi punti di riferimento. Il mare aperto è anche una parabola positiva: il luogo dell’avventura umana in cui l’uomo realizza la sua missione di scoprire sempre nuovi orizzonti, per conoscere terre lontane, incontrare popoli e civiltà e stringere legami di amicizia e patti di pace. Non è svanito il motto del sempre caro Giovanni Paolo II, ‘Duc in altum’, rivolto alla Chiesa all’inizio del terzo millennio (6 gennaio 2001). Egli intravvedeva il futuro come un tempo in cui si sarebbe affermato l”incontro delle civiltà’, l’epoca dell’amore globale, dello scambio dei doni di tutti i popoli per la felicità dell’intera famiglia umana. Riaprendo il dialogo con i lettori, vorrei ricordare che scriviamo notizie, opinioni e riflessioni, con uno sguardo che oscilla tra realismo e profezia, impegno e speranza, denuncia ed esortazione, come si conviene a chi si trova a navigare dentro una ‘barca’ che di tempeste ne ha subite molte ed anche per ciò è maestra di vita.
In mare aperto
AUTORE:
Elio Bromuri