In tutte le discussioni alle quali assistiamo, sui media come tra amici, su qualunque tema, non ultimo il tema immigrati, c’è sempre una buona parte di opinioni (e di opinionisti) che fanno leva sulla pancia più che sulla ragione. Il sentimento (inteso come “ciò che sento/penso io”) prevale sull’argomento, sulla ponderazione dei pro e dei contro. Non è una novità, ma preoccupa molto vedere come questo approccio si insinua ovunque e mina alla radice la possibilità di pensare e progettare uno spazio di vita comune. Di qualunque argomento si tratti è messo in dubbio l’autorevolezza dell’“esperto” che ha studiato e ha un’esperienza che altri non hanno. Non solo. Sono messi in dubbio, ed è ancor più grave, metodi di analisi della realtà elaborati negli anni proprio per ridurre al minimo l’influenza dell’opinione personale. Sono metodi infallibili?
Certo che no, ma da qui a metterli sullo stesso piano dell’opinione personale ce ne corre! Non è bastata la voce dei medici per spiegare, portando i risultati di ricerche e di studi internazionali, che i vaccini non sono la causa dell’autismo; ci sono voluti la mano forte della politica e la mobilitazione dei media. Stessa sorte per gli immigrati che porterebbero malattie. Il ministro della salute spiega che i migranti, quelli che viaggiano sui barconi, arrivano sani, debilitati dal viaggio e dalle violenze subite, ma senza le gravi malattie che gli vengono attribuite. Lo dice sulla base dei risultati delle visite mediche cui sono sottoposti tutti quelli che approdano in Italia. Eppure c’è chi soffia sulla paura e continua a dire il contrario.
La discussione sul cosidetto “ius soli” risente di questo meccanismo, a cominciare dall’uso improprio che si fa del termine. La legge ferma in Parlamento, infatti, non introduce il diritto alla cittadinanza solo per il fatto di essere nati in Italia ma ne prevede il riconoscimento solo se vi sono anche altre condizioni. Ciò che però distorce in modo significativo il dibattito è il volerlo associare all’immagine dei migranti che arrivano dal mare e che vengono dipinti come invasori. Ma la legge sulla cittadinanza di cui si parla, e per la quale si sono levate molte voci per chiederne l’approvazione (anche al Cortile di Francesco che si è tenuto ad Assisi) riguarda solo coloro che sono nati in Italia o che vi sono arrivati da bambini. Alimentare la paura amplificando quelli che spesso sono pregiudizi che sconfinano nel razzismo (per esempio quelli di chi valuta in modo diverso la violenza sulle donne se a compierla è un italiano o uno straniero) non aiuta certo a pensare ad una accoglienza dei migranti che sia “prudente” e misurata sulle possibilità del nostro Paese, perché sempre accoglienza deve essere, garantendo percorsi di integrazione che sono possibili ed efficaci solo se comprendono la possibilità di diventare cittadini (con diritti e doveri) del Paese in cui si è accolti.
“La Nazione” ha promosso un sondaggio tra gli immigrati chiedendo loro se vogliono integrarsi e titola “Uno su tre dice no”. Credo che se avessero fatto la stessa domanda ai nostri emigrati in Belgio, Germania, Lussemburgo, Francia, America… quando erano emarginati, guardati con sospetto, sfruttati, discriminati sul lavoro e senza diritti di cittadinanza, non credo che la risposta sarebbe stata molto diversa. Certo, è una opinione personale, e per superare il soggettivo occorre guardare i fatti, le esperienze di buona integrazione che abbiamo in Italia e che vengono da altri Paesi. Senza pregiudizi.