Uno dei significati più autentici dello storico viaggio di Papa Francesco ad Assisi, che ha toccato tutti i luoghi più importanti del francescanesimo nella città del Poverello, può essere efficacemente rintracciato in due momenti che sono stati carichi di alto valore simbolico: l’incontro mattutino con i bambini disabili e ammalati dell’Istituto Serafico di Assisi; e la visita, all’imbrunire, al “sacro tugurio” di Rivotorto, le due anguste e modestissime casupole dove trovarono rifugio i primi compagni di san Francesco.
Nella visita al Serafico – sorto alla fine dell’Ottocento per la volontà del beato padre Lodovico da Casoria per ridare una speranza a una moltitudine di ragazzi sordi e ciechi, a quelle “creature infelici e abbandonate” dal mondo – il Santo Padre ha avuto un incontro autentico con le “piaghe” della sofferenza. (Segue a pagina II)
“Noi siamo fra le piaghe di Gesù – ha detto Francesco nel corso dell’incontro – e queste piaghe vanno ascoltate!”. Nella visita al Sacro Tugurio – l’ambiente povero, squallido e disadorno che accolse inizialmente Francesco dopo essersi spogliato dei beni terreni, insieme ad alcuni compagni come Bernardo da Quintavalle e Pietro Cattani – il Vescovo di Roma ha potuto vedere, invece, “la culla della fraternità francescana”, ovvero la scelta della povertà come “memoria dell’incarnazione”.
In questi due momenti, che sono stati non casualmente la tappa iniziale e finale del viaggio ad Assisi, si può cogliere efficacemente il significato profondo di questo storico itinerario umbro: portare il lieto annunzio agli ultimi e ai poveri. In questo itinerario non c’è spazio per alcuna lettura sociologica della povertà né tanto meno per una rivendicazione politica. L’unico orizzonte è quello delle Beatitudini, che dipingono il volto di Gesù descrivendone la carità, e quello del Concilio, che delinea la necessità del rinnovamento della Chiesa nel mondo contemporaneo, pur nel rispetto della Tradizione.
In quei due incontri assisani, dunque, c’è spazio unicamente per l’annuncio autentico e vigoroso della bellezza del Vangelo. Un Vangelo annunciato ai malati e ai bambini, ai poveri e alle famiglie. Un Vangelo annunciato, prima di tutto, agli ultimi della Terra. Nel Testamento scritto poco prima di morire, san Francesco annotò: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il santo Vangelo”. E in virtù di questa consapevolezza, scelse “sorella povertà” come imitatio Christi rinunciando alla seduzione della mondanità e vivendo gioiosamente come un “giullare”.
Il richiamo fortissimo di Papa Francesco al “pericolo della mondanità” che “uccide la Chiesa”, perché è “lo spirito contrario alle Beatitudini”, invita a non dimenticare che l’episcopato è sempre “un ministero di salute per le anime” e non rappresenta mai una tappa della carriera degli ecclesiastici. Oggi come in passato, è assolutamente fondamentale fuggire dalla mondanità, perché il Signore, come ci ha esortato più volte il Papa, ci “vuole Pastori con l’odore delle pecore” e “non pettinatori di pecore”.
Inizia da questa consapevolezza la nuova evangelizzazione in una società che, ormai, sempre più tende a “premiare i diritti individuali” a discapito della famiglia. L’evangelizzazione del tempo presente significa, innanzitutto, il superamento della “cultura del provvisorio”, perché “Gesù non ci ha salvato provvisoriamente ma definitivamente”, e l’abbandono della “cultura dello scarto”, perché non esistono scarti né tra i lebbrosi né tra i poveri. Contestualmente l’annuncio del Vangelo deve poter favorire la vocazione del “custodire” attraverso la rivoluzione della tenerezza e della misericordia. L’esperienza del carcere e della guerra avevano portato san Francesco, come scrisse il suo primo biografo Tommaso da Celano, “a vivere nella gioia di poter custodire Gesù Cristo nell’intimità del cuore”.
La vocazione del “custodire”, oggi, non riguarda soltanto i cristiani, ma ha una “dimensione che precede” ogni convincimento laico o religioso ed “è semplicemente umana, riguarda tutti”. Tutti siamo chiamati ad essere custodi del creato e dell’intera umanità, chinandoci con amore materno e spirito paterno verso i più poveri e i più deboli, perché nel volto dei sofferenti si trova sempre il volto di Cristo.