Nella domenica che precede il Natale leggiamo il racconto della natività secondo Matteo. Purtroppo nel lezionario viene mutilato della sua finale, che certo ben conosciamo, ma che ovviamente è la logica conclusione del brano, che altrimenti (e volutamente, immagino) rimane sospeso: “la quale (Maria), senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù” (Mt 1,25). Il racconto della nascita di Gesù si trova in Matteo subito dopo i 17 versetti da lui dedicati alla genealogia, anzi, ne è la continuazione. Non a caso, ovviamente, l’evangelista scrive, alla lettera, “di Gesù Cristo la ghénesis fu questa” (Mt 1,18), proprio quando in 1,1 aveva appena scritto: “libro della ghénesis di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo”.
Motivo la scelta di mantenere la parola greca citando A. Mello, autore di un commentario midrashico al Vangelo secondo Matteo (Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, 1995): “la parola greca ghénesis ha un duplice significato: origine, generazione (lat. origo), ma anche nascita (lat. ortus). In 1,1 viene usata nel primo senso, al v. 18 nel secondo: Di Gesù Messia la nascita avvenne così. Però anche in questo caso la prima accezione del termine non scompare del tutto, e infatti quello che si narrerà ora non è solamente la nascita di Gesù, ma soprattutto il suo concepimento, la sua origine dallo Spirito santo”.
Mentre il racconto di Luca – quello che ci accompagnerà durante la messa della notte di Natale – è visto dalla prospettiva di una donna giovane, Maria, lo sguardo che attraversa il Vangelo dell’infanzia di Matteo è invece tutto maschile, quello di Giuseppe. Egli già compare al v. 16, dove è presentato come l’ultimo anello di quella catena che parte da Abramo e che arriva fino a lui: “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo”. Mentre Maria prende la parola, nel Vangelo dell’infanzia di Luca, almeno tre volte (un’altra volta la sentiamo parlare in Giovanni), Matteo mai dà la parola a Giuseppe. Quello che si dice di quest’uomo è riassumibile in un aggettivo e nei verbi di cui egli è soggetto. Giuseppe – scrive Matteo – era giusto. Matteo usa 17 volte l’aggettivo, e l’ultima volta che Matteo usa tale parola è per dire che anche Gesù è giusto, anzi, è “il” giusto: “Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie (di Pilato) gli mandò a dire: Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua”.
Ma i confronti con Gesù non sono finiti: la prima parola detta da Gesù nel Vangelo di Matteo – quando Gesù risponde al Battista – riguarda proprio un sostantivo correlato all’aggettivo giusto, e cioè giustizia: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia” (Mt 3,15). Insomma, grande è la preoccupazione per un ebreo come Matteo per questo termine. Esso designava, secondo il Bauer-Danker, non una caratteristica generica come la bontà d’animo o l’onestà, ma, in modo molto più specifico per il giudaismo del tempo del Nuovo Testamento, l’essere conforme alla Legge di Dio. Anche in Lc 1,6 troviamo che Zaccaria e Elisabetta erano “giusti davanti a Dio”, e cioè, spiega l’evangelista, “osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.
La questione che fa da sfondo all’insistenza sui termini giusto-giustizia è molto forte per Matteo, così attento alla Legge: “il problema che Giuseppe deve affrontare è uno solo: Maria è incinta, e non da lui. Quindi, per legge, non può prenderla in sposa” (Casalini). Giuseppe, oltre ad essere giusto, è un uomo “pratico”, e per questo ha già preso una decisione su una questione così delicata: ha deliberato di divorziare in segreto da Maria (cfr. v. 19). Ma sopraggiunge l’imprevisto, un sogno. I sogni sono fondamentali nel Vangelo dell’infanzia di Matteo, e torneranno, come visto sopra, proprio nel racconto della passione. Luoghi della comunicazione con Dio per il mondo greco-romano, sono per l’Antico Testamento un modo per comprendere la sua volontà e le sue decisioni; secondo l’Anchor Bible Dictionary, diversamente dai “nostri” sogni, o da quelli presenti nelle varie leggende o nelle letterature (si pensi al sogno della moglie di Giulio Cesare), Dio insieme al sogno dona anche la corretta interpretazione.
Così, anche nel Nuovo Testamento il significato accompagna sempre il sogno. Insomma, non è necessario aver letto Freud per svelare chissà quale simbolica: il messaggio del Vangelo è Cristo stesso, e “nel Nuovo Testamento sogni e visioni sono sempre visti come secondari rispetto alla rivelazione che è Cristo, e sono significativi solo in relazione ad essa” (J. Meyer Everts). Comunque, questa rivelazione di Dio dona pace a Giuseppe: egli non teme più, e può prendere Maria nella sua casa. Giuseppe, continua a raccontarci Matteo nei vv. 24-25, compie alcune azioni obbedendo a Dio, vale a dire a quanto l’angelo gli ha appena comunicato nel sogno dei vv. 20-23: prende con sé Maria come sua sposa rispettando la Legge, e impone il nome Gesù al figlio nato da lei. Maria resta sullo sfondo: partorisce il figlio, ma la discendenza davidica viene da Giuseppe, chiamato dall’angelo proprio “figlio di Davide”, che è il nome più ripetuto in quella ghénesis-genealogia che abbiamo visto sopra.
Il contenuto delle parole che Giuseppe ascolta dall’angelo è la rivelazione del duplice nome di quel bambino che nascerà dalla sua sposa: egli è Gesù, e sarà chiamato l’Emmanuele. In questo Natale, questo è il mio augurio, accada che anche noi possiamo riconoscere nel volto di quel figlio che nasce il Salvatore, e il Dio-con-noi. Buon Natale a tutti.