Il Sinodo tiene aperti gli occhi

Dire che Sinodo è innanzitutto “cammino” non è una banalità, soprattutto se si comprende la fatica di tenere ciascuno il passo dell’altro per procedere con un’andatura armonica, che rispetti la fatica dell’altro senza concentrarsi esclusivamente sulla propria. Significa abbandonare il sogno e il desiderio di mete personali per scrutare piuttosto l’orizzonte come bene comune.

L’Assemblea sinodale che si è realizzata nei giorni scorsi nella basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma è stata sì fortemente voluta, proposta e sospinta da Papa Francesco, ma è stata suggerita soprattutto dallo Spirito e generata dalla Storia. La scelta del luogo in cui avvenne il primo annuncio “giovanneo” diceva con tutta chiarezza che ci si poneva in continuità con quella primavera del Concilio il cui spirito attende ancora d’essere metabolizzato dalle Chiese locali.

D’altra parte non si possono più chiudere gli occhi di fronte al futuro disegnato dalla proiezione sociologica e statistica che parla di chiese, seminari e conventi che si svuotano. Nello stesso tempo – ha rilevato mons. Erio Castellucci in apertura – “per la scienza statistica una visita all’ammalato o un dialogo anche occasionale con un adolescente o l’accoglienza di un povero non ha rilevanza, a differenza delle percentuali dei praticanti o di chi si sposa in Chiesa o del numero dei seminaristi”.

Quindi l’evento-Sinodo è un ascolto dello Spirito santo e della Storia, e uno sguardo attento al bene e ai segni di speranza che sono enormemente di più di quelli che possiamo conoscere e immaginare. È questo che ha segnato la rotta dell’Assemblea sinodale, in cui è sembrato che i delegati delle Chiese si siano scrollati di dosso le preoccupazioni inutili e superflue, oltre che banali e inconcludenti, del politicamente/ecclesiasticamente corretto per risvegliare piuttosto la parresìa di chi sa di non avere nulla da perdere e tutto da guadagnare.

In questo si è respirata la profezia cui ha fatto riferimento esplicito Papa Francesco nel suo messaggio all’Assemblea: “I profeti vivono nel tempo – ha detto – , leggendolo con lo sguardo della fede, illuminato dalla Parola di Dio. Si tratta dunque di tradurre in scelte e decisioni evangeliche quanto raccolto in questi anni. E questo lo si fa nella docilità allo Spirito”.

Il mandato pertanto era a ricercare la concretezza della profezia che “è la capacità di declinare quello che del cristianesimo ‘fa la differenza’ nella cultura in cui esso è chiamato a vivere, non in un contesto ideale astorico e atemporale. La missione diventa cultura quando un’esperienza si presenta ragionevole e praticabile anche per gli altri. Qui sta la forza della profezia” (mons. Castellucci). Una profezia di popolo che è il carattere stesso della Pentecoste, che non fu un atto di singoli, dal momento che “tutti” sentivano gli apostoli parlare la propria lingua.

In questo senso sono preziose le scelte concrete rilanciate dai 100 tavoli dell’Assemblea per riformare la Chiesa nella sua capacità di comunicare, di educare all’iniziazione cristiana, di costruire la pace e la nonviolenza, di abbracciare il dialogo come cifra della relazione, di nuova corresponsabilità nelle scelte da operare, di revisione delle strutture di partecipazione, solo per fare alcuni esempi.

Temi che hanno originato proposte molte concrete che, se non vengono edulcorate da una sintesi atrofizzata dalla paura del nuovo, possono riuscire a cambiare il volto della comunità cristiana che assume lo stile della missione come battito del proprio cuore.

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