Il centro non è il carisma, il centro è Gesù Cristo. Nessuno verosimilmente mette in discussione il punto, nella Chiesa. Ma poi è la pratica, non la grammatica, che fa la differenza.
Sono discorsi di generoso riconoscimento, e di limpido ammonimento, quelli che papa Francesco va rivolgendo ai responsabili e agli eredi dei grandi carismi che hanno rimesso in movimento la Chiesa di questo ultimo mezzo secolo. Quale che sia il dono ricevuto, la prova del fuoco dei carismi è l’edificazione della Chiesa di tutti: «l’utilità comune», dice san Paolo. Papa Francesco aggiunge accenti non secondari a questa regola d’oro.
Il primo è che questo orientamento comporta un rigoroso “decentramento”. «Quando metto al centro il mio metodo spirituale, il mio cammino spirituale, il mio modo di attuarlo, io esco di strada», ha detto ieri il Papa nell’incontro con Comunione e Liberazione. In termini analoghi aveva incoraggiato venerdì gli aderenti al Cammino Neocatecumenale: «Quante volte, nella Chiesa, abbiamo Gesù dentro e non lo lasciamo uscire… Quante volte! Questa è la cosa più importante da fare se non vogliamo che le acque ristagnino nella Chiesa». Il decentramento del carisma significa la capacità di spostarsi da un lato, non appena ci si accorge che la rappresentazione di sé oscura il centro, ostruisce la strada a Gesù, chiude le porte della Chiesa.
Il decentramento contrasta dunque attivamente (“respinge”) la pulsione all’autoreferenzialità: fosse pure ammantata dei motivi apparentemente più alti del coraggio e della fedeltà. Il decentramento del carisma, che illumina il nucleo caldo dell’unica fede che deve essere vissuta e trasmessa, comporta spirito di distacco dalle proprie confortevoli abitudini di linguaggio e di comportamento. In determinate circostanze esse hanno forse assicurato l’uniformità e l’intesa della propria vocazione. Ma poi hanno finito per sostituire un gergo alla freschezza della parola della fede, e semplici rituali di gruppo alla trasparenza della fraternità cristiana. Con il rischio – non astratto – di confondere la fedeltà alla tradizione con l’istinto di autoconservazione.
Di fatto, l’incoraggiamento del Papa a non mortificare in questo modo la vitalità del prezioso carisma ricevuto dallo Spirito attraverso i testimoni del suo dono, si apre sull’orizzonte dell’intera Chiesa: dall’ultima parrocchia alla Curia romana. La fine dell’autoreferenzialità ecclesiale è l’inizio della nuova evangelizzazione. Il decentramento, a questo punto, si salda semplicemente con il dogma: Gesù Cristo è il nome benedetto del Salvatore per tutti gli uomini. Nessun altro. Quando ci mettiamo con fede al servizio dell’uscita di Gesù verso gli uomini e le donne che abitano le regioni inospitali della vita e della storia, questo svuotamento ci riempie di attrazione e di grazia. Quando cerchiamo di custodire il mistero di Cristo nel cerchio difensivo e impenetrabile del nostro puro autoriconoscimento, in realtà, diventiamo repulsivi e vuoti. Diciamo continuamente “Signore, Signore”, ma lo separiamo dagli altri.
Non posso fare a meno di ricordare – con un pizzico di personale entusiasmo – l’immagine di questa armonizzazione sinfonica dei movimenti, sul motivo della «Chiesa in uscita», che papa Francesco attinge dal grande musicista Gustav Mahler (1860-1911), interprete e testimone musicale del difficile passaggio dell’epoca da abitudini ormai infiacchite a un nuovo slancio di creatività: «La tradizione significa tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri».
(Editoriale pubblicato da Avvenire il 9 marzo 2015)