L’importanza del miracolo dei pani e dei pesci è data prima di tutto dal fatto che esso ci viene raccontato da tutti quattro i Vangeli. Ha avuto dunque un grande valore di segno nella tradizione apostolica. Da questo miracolo Giovanni prende lo spunto per parlare dell’eucaristia, in un lungo discorso ambientato nella sinagoga di Cafàrnao (Gv 6,26-58). Il fatto è raccontato da Marco e Luca nel contesto del ritorno dei discepoli dalla missione nelle città della Galilea. Essi hanno steso un breve resoconto della loro attività missionaria a Gesù, e lui si è rallegrato con loro e ha ringraziato Dio per loro. Poi li ha invitati a passare qualche ora di riposo insieme, lontano dalla folla. L’unico modo per farlo era salire in barca e prendere il largo sul quieto lago di Genezareth. Rischiavano infatti di farsi fagocitare dalla folla, che non lasciava loro un momento di pace. Così partirono in barca in direzione di Betsaida, ma scelsero un’insenatura tranquilla più vicina, nei pressi di Tabca (chiamata così perché vi sgorgavano sette sorgenti, in greco Epta-pegon).
La folla che avevano lasciato intuì il loro itinerario abbreviato, e quando sbarcarono se la trovarono schierata sulla spiaggia in attesa. Quella ostinata rincorsa andava premiata, e Gesù si mise di nuovo a parlar loro del Regno di Dio e a guarire i malati che gli presentavano. Passavano le ore, e nessuno si muoveva dal suo posto, come attratti da una divina calamita. Stava sopravvenendo la sera; quella massa indistinta di uomini, donne e bambini non si preoccupava nemmeno di mangiare. Marco dice che Gesù si commosse perché ‘erano come pecore senza pastore’, disorientati, in cerca di una guida che desse loro sicurezza. Egli ascoltava il grido inespresso che saliva silenziosamente da quella gente povera e bisognosa, affamata di verità e di solidarietà più che di pane. Non poteva rimanere indifferente. Si sentiva pastore vero come il Dio descritto nel Salmo 23.
Perciò, quando i suoi discepoli lo invitarono a licenziare la folla perché andasse nei villaggi vicini a cercare cibo e alloggio, rispose: “Date voi da mangiare a questa gente”. La proposta di Gesù suonò strana e inaspettata, perchè umanamente irrealizzabile. Non faceva difficoltà a quel tempo dormire all’aperto: molta gente dormiva per strada avvolta nel mantello che portava con sé come coperta. Per il mangiare era diverso: come si fa a cercare il cibo per tanta gente in un luogo disabitato? L’unica alternativa era andare a comprare il pane nei villaggi che si affacciavano sulle rive del lago. A parte il costo (più di duecento denari, calcolano gli apostoli in Mc e Gv), c’era la difficoltà di reperire tanto pane per tutti in un raggio limitato di territorio. L’unica era sostituire al verbo “comprare” il verbo “donare”.
Gli apostoli, dopo una breve ricerca, non si ritrovano tra le mani che cinque pani d’orzo e due pesci, il cibo dei poveri in riva al lago. La merenda di un ragazzo, dice Andrea che aveva svolto la prima inchiesta (Gv 6,9). È così poco ciò che si può donare e condividere! Ma sono sempre i poveri ad aiutare i più poveri di loro. Solo dopo il gesto generoso di un bambino, il poco diventa abbondanza e sazietà. L’economia cristiana è quella del dono. Dio moltiplica ciò che si dona. Il poco che ciascuno può donare diventa molto, fino a bastare e avanzare nelle mani di Dio. Non ci si può riparare dietro la scusa che è troppo poco ciò che si può dare, in confronto all’enorme povertà che ci circonda: è una goccia d’acqua in un deserto, ma quella goccia d’acqua può diventate un diluvio se Gesù comanda di far sedere i commensali a gruppi, in modo che diventi più facile e capillare la distribuzione.
Quelle persone si devono sentire a loro agio, sdraiate a mensa come comandava il rituale di Pasqua, alla maniera di uomini liberi. Il miracolo di Gesù è descritto con le stesse modalità della cena eucaristica pasquale: “Egli prese in mano i cinque pani e due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla”. Ogni eucaristia è mensa della carità, e ogni mensa della carità è eucaristia. Il pane terreno è segno del pane celeste che chiediamo ogni giorno nella preghiera del Pater. Restano vere per sempre le parole di Gesù: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,51). In ogni dono di carità questo Pane vene donato e condiviso. La carità come l’eucaristia appartengono all’essenza stessa della Chiesa; senza di esse, la Chiesa non esisterebbe e non avrebbe ragione di esistere. Ambedue sono il suo cuore, perché si compenetrano e si identificano. Anche la mediazione degli apostoli è nella natura sacramentale della Chiesa: Dio si serve di mani umane per arrivare al cuore degli uomini.
Nell’eucaristia, ancora oggi il pane di Dio è donato e distribuito dalle mani dei sacerdoti. Nella stessa eucaristia e nella vita, il pane degli uomini è donato e distribuito da mani umane, da fratello a fratello. Fin dai primi secoli cristiani non c’è stata mai celebrazione eucaristica senza la raccolta delle offerte per i poveri. L’eucaristia non può mai essere una devozione da vivere nel privato, essa ha una forte dimensione sociale: crea la Chiesa come segno visibile dell’amore di Dio per gli uomini. Chi partecipa alla tavola di Dio deve sentirsi obbligato a partecipare ai fratelli la propria mensa. Paolo sgridava severamente i cristiani di Corinto, perché mangiavano insieme l’eucaristia, ma non sapevano condividere con i poveri il pane materiale della carità. Diceva: “Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (1 Cor 11,20). L’eucaristia è snaturata dalla mancanza dell’amore e della condivisione. La generosità di Cristo è resa vana da un atteggiamento egoista e individualista. La festa del Corpo e Sangue del Signore non può che essere la festa della carità cristiana.