Solo quattro versetti del Vangelo di Giovanni, ma ricchi di significati, per questa domenica di Pasqua. Rileggendo il quarto Vangelo si scopre che l’occasione per cui Gesù si definisce pastore è data da una polemica con quei giudei che si affollavano intorno a lui domandandogli di rivelarsi o meno come il Messia. Gesù risponde loro: “Ve l’ho detto e non mi credete (…) perché non siete mie pecore” (Gv 10,25-26). Per quale motivo Gesù riprende l’immagine del pastore? Il Messia è Gesù. Il Concilio Vaticano II, con la Lumen Gentium, ci ricorda che dobbiamo usare simboli, figure, per dire realtà più profonde: la Chiesa, ad esempio, nel Nuovo Testamento è paragonabile ad “un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo. È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore, e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe dei pastori, il quale ha dato la vita per le pecore” (n. 6).
Ecco spiegati alcuni motivi che illuminano l’associazione Cristo-pastore. Ma è soprattutto nel nostro contesto – quello del vangelo di Giovanni – che si rivela appieno questa immagine. Nello sfondo del Primo Testamento, infatti, il pastore era un simbolo per il re di Israele. Così, ad es., Ez 34,23: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore”. Gesù si sta proclamando Messia. Di che messianismo si tratti, lo sappiamo bene. Nel giudaismo del Secondo Tempio vi erano diversi modi di intendere il Messia: regale, appunto (come quello davidico), sacerdotale, profetico, celeste…; secondo Romano Penna, tra il 70 a.C. e il 70 d.C. sono riscontrabili una decina di concezioni diverse. Molte attese erano troppo “terrene”: il Cristo era visto principalmente come liberatore politico. Così non è stato, e anzi, è accaduto l’opposto. Gesù è il Messia ma con una novità imprevedibile rispetto alle attese di Israele: lo storico Jossa della Federico II di Napoli ci ricorda che “non sembra che per l’epoca di Gesù si possa parlare di un’attesa messianica dei Giudei legata alla figura del servo sofferente di Jahvè di Isaia”. Cioè, solo la lettura cristiana intravede nella morte di Gesù un segno del suo essere Messia.
Dare la vita eterna. Chi altri può avere una tale pretesa? Il pastore buono dice di poter dare sì qualcosa, ma che è addirittura eterno, ed è la stessa vita. Espressione amata da Giovanni – che la usa più di qualsiasi altro scritto del Nuovo Testamento – “vita eterna” ricorre molte altre volte nel suo vangelo: è il risultato della morte del Messia, innalzato affinché tutti quelli che credono in lui abbiano la vita eterna (cfr. Gv 3,14-15); è il dono dell'”acqua viva” dato alla Samaritana, acqua che zampilla “per la vita eterna” (4,14); è il frutto dell’ascolto della parola di Gesù e della fede nel Padre che lo ha mandato (cfr. 5,24), e anche del mangiare il suo corpo e il suo sangue (cfr. 6,54), e così via… Nella sacramentaria cristiana, è data col Battesimo. Si veda l’attuale Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, nel dialogo tra il celebrante e il candidato: “Che cosa domandi alla Chiesa di Dio? – La fede. – E la fede cosa ti dona? – La vita eterna”. Ma quanto è difficile parlare di vita eterna, oggi.
Nella nostra cultura centrata sull’effimero, su quello che consumisticamente dura poco tempo e poi viene buttato via per essere subito dopo rimpiazzato. Facciamo fatica a pensare ad un domani, figuriamoci all’eterno. In questo tempo pasquale, il tema della vita eterna è importante perché richiama il senso ultimo della morte e risurrezione di Gesù Cristo ed apre gli orizzonti altrimenti angusti del nostro vivere. Nel nostro mondo che cambia, così difficile, noi cristiani sappiamo dove andare. Perché abbiamo il pastore grande delle pecore – scrive la lettera agli Ebrei – che ha “fatto il Messia” dando la sua vita per noi ed è stato risuscitato dal “Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù…” (Eb 13,20). Chi vuole rapire le pecore? Non è detto nel nostro brano. Ma nel linguaggio sapienziale di Giovanni sappiamo che è come immaginata una lotta tra luce e tenebre (si veda già il suo Prologo) che interpreta la nostra realtà. Nelle brevi parole di questi versetti si nasconde quindi un dramma che ci vede tutti protagonisti. Le azioni di questo dramma si riducono a due possibilità essenziali. O ci si lascia afferrare da Cristo (cfr. Fil 3,12), ascoltando la sua voce, o si è rapiti da altri.