Rispondiamo con gratitudine e con qualche trepidazione all’invito fattoci da La Voce di condividere le riflessioni sui Vangeli del periodo estivo. A tale tempo spesso si associa una pausa di riposo e distensione, ma non di rado anche l’occasione di studio, di riflessione, di ritiro e preghiera. Un tempo “ordinario” quindi, che nella sua “normalità” diviene “straordinario”, denso e carico di significato poiché, ogni volta che Dio sceglie l’uomo come strumento attraverso il quale portare la sua Parola, le circostanze in cui ciò si realizza sono sempre incredibilmente “normali”: la chiamata giunge ai pescatori mentre gettano le reti in mare, ai pastori, a chi spigola dietro ai mietitori, a ciascuno di noi nelle ordinarie occupazioni della nostra vita.
Tutta la liturgia della Parola di questa domenica vuole invitarci a saper cogliere l’importanza di scoprire la nostra vocazione missionaria nella ferialità della vita normale. Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nazareth non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; anzi, sembra voler ancor più intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle loro mani e alla loro bocca. Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono “mandati” ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione siano designati con il nome di “apostoli”. Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata, cfr. Mc 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una “chiamata per”.
La missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa, della vocazione di ciascuno di noi. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. Perciò Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi “prende”) e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione (“Va’!”), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…
Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati a due a due. Questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva, ma c’è qui qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i Suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la Parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità, uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco.
Quando si è in due, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, e questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, è già “buona notizia” per l’uomo di oggi, per ogni nostra famiglia e comunità religiosa e per quanti sono afflitti dalla solitudine e dall’isolamento. Gesù raccomanda ai Dodici cosa portare per il viaggio e come debbano comportarsi quando arrivano in un determinato luogo, ma non precisa né dove andare, né cosa dire: c’è solo questo andare in coppia, con un potere ricevuto per delega (quello sugli spiriti impuri che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e un bastone, unico “bagaglio” da avere con sé. I missionari devono andare “nudi” e “leggeri”, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale che deve caratterizzare la missione, non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il Vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al Vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi; che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri); che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore).
Su questo la Chiesa e i cristiani di ogni tempo saranno sempre chiamati a confrontarsi e a verificarsi. Il discorso ai missionari si chiude con una nota domestica. Il “rimanere in una casa” apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. “Casa” è luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa, in ciascuna nostra famiglia. Ma questa stessa casa può diventare luogo di rifiuto, di non accoglienza. Sembra quasi che la parola del Vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici, tanto è sottolineato, nel testo, il rilievo alla chiusura, all’opposizione.
Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per Gesù?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la Parola di Dio possiede una forza e un’efficacia che le permetteranno comunque di portare frutto.