È ormai prossima la beatificazione del venerabile servo di Dio Paolo VI, di cui ho ben incisa nella memoria la figura – avvolta dal mantello rosso, il cosiddetto “tabarro” – così nobile e così semplice, così pubblica e così riservata, così austera e così delicata. Se a Papa Roncalli va riconosciuta la paternità e la profezia del Concilio, a Papa Montini va il merito di aver condotto il Vaticano II alla sua piena realizzazione, coniugando fedeltà e rinnovamento. Se il Concilio è riuscito a giungere a termine assorbendo tensioni, creando ponti tra posizioni diverse, lo si deve alla pazienza, alla lucidità, alla capacità di ascolto e di mediazione del Pontefice bresciano. La chiave di volta del pontificato di Paolo VI è rappresentata dall’enciclica Ecclesiam Suam, che porta la data del 6 agosto di cinquant’anni fa, ma che non cessa di istruire e di incoraggiare la Chiesa a illuminare il mondo con la luce di Cristo.
Si tratta di un documento pontificio che, per non entrare nei temi che il Concilio aveva messo nel suo programma, vuole essere confidenziale, discorsivo. “È una manifestazione – ebbe a dire Papa Montini – dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri: parliamo del nostro animo. Diciamo quello che noi pensiamo debba fare oggi la Chiesa per essere fedele alla sua vocazione e per essere idonea alla sua missione (…). Vogliamo sperare che questo nostro pontificale e pastorale messaggio trovi accoglienza anche oltre i confini della Chiesa, perché oltre i suoi confini arriva l’amore che l’ha ispirata”.
L’enciclica, nella sua sobrietà e concretezza, sottolinea che edificare la Chiesa significa attendere incessantemente all’opera della riforma, che si configura come un’opera di “rinnovamento nella continuità della grande tradizione”. Si tratta di un processo che, al riparo da nostalgie e da fughe in avanti, non è assimilabile a un lavoro di manutenzione e nemmeno di restauro o di ristrutturazione. Esso consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà della Chiesa alla sua vocazione di “comunità in cammino”, che il Signore plasma sempre di nuovo seguendo, per così dire, lo stesso protocollo adottato per il popolo primogenito dell’Alleanza: “Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele” (Geremia 18,6). Nell’osservare che nessuna barriera a tenuta stagna divide la Chiesa dal mondo, Paolo VI tiene a precisare che l’incontestabile coinvolgimento della Chiesa nella storia non sminuisce ma esalta la sua costitutiva relazione sponsale con Cristo. L’immagine dei “cerchi concentrici”, ripresa nella Lumen gentium per descrivere i destinatari del dialogo della Chiesa con il mondo, ha il vantaggio di spostare lo sguardo dalla questione delle “frontiere” del Corpo ecclesiale verso quella del suo “centro”, Cristo Salvatore.
Nonostante il mezzo secolo che ci separa dalla pubblicazione dell’Ecclesiam Suam, il programma di Papa Montini, proseguito durante tutto il suo pontificato ed espresso con rinnovato impegno nel 1975 nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, non è per nulla desueto. Gli attuali inviti di Papa Francesco, che sprona la Chiesa a non chiudersi in se stessa, vanno nella medesima direzione e sono ispirati dalla stessa passione del suo predecessore, che ha gettato sulla Chiesa il “mantello” di una sapienza profetica. Uno dei profili più nitidi di Paolo VI è quello tracciato di recente dal suo medico personale, Renato Buzzonetti, che non solo ha auscultato il torace del Pontefice bresciano, ma ha sentito i battiti del suo cuore fino all’ultimo respiro: “Un cuore mondo da ogni residua amarezza, e soltanto aperto al suo universale ministero di carità”.