Il trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) piuttosto che celebrare l’eroismo delle vittime, dovrebbe spronarci a proseguire con determinazione due obiettivi. Innanzitutto pretendere verità e giustizia per una vicenda che negli anni ha registrato ostacoli e depistaggi, collusioni e convergenze di interessi. Poi riuscire a considerare più attentamente il fenomeno mafioso, che influenza e condiziona la nostra vita collettiva tanto sul piano economico e sociale quanto su quello culturale ed educativo.
Non si tratta semplicemente di una questione di ordine pubblico, quanto di una mentalità che contagia i nostri vissuti e orienta i comportamenti. Per quanto possa apparire paradossale, il diffondersi della “discultura” mafiosa è favorita dal nostro disinteresse, dal momento che le mafie, da tempo, hanno imparato a non fare rumore con uccisioni e stragi, ma a creare consenso con la pratica della corruzione e presentandosi come soggetto economico vincente.
Tutti questi fattori hanno spinto le mafie oltre quelli che credevamo i loro confini naturali, per sfruttare ogni aspetto della globalizzazione. È passato troppo tempo da quel 19 luglio 1992, e il debito che abbiamo contratto con Paolo Borsellino e con tutti coloro che hanno pagato con la vita ha maturato una montagna di interessi.