Oltre 70.000 chilometri, su e giù per l’Italia e l’Europa, a bordo di un pulmino, per stabilire lo stato di salute delle opere d’arte. Tanto il percorso svolto dal gruppo di scienziati e studiosi del Molab (Mobile laboratory) del centro di eccellenza Smaart (Scientific methodologies applied to archaeology and art) dell’Università di Perugia. Un laboratorio viaggiante, a disposizione di chi si occupa della conservazione delle opere d’arte, dotato di una serie di apparecchiature altamente specialistiche, leggere e maneggevoli, pronte all’uso. Il loro compito è quello di eseguire analisi complesse su quadri, affreschi, sculture, manoscritti antichi, con metodi non invasivi (senza danneggiare l’opera d’arte), nel luogo dove sono conservati, limitando i rischi e i costi legati al suo spostamento, soprattutto in caso di opere molto delicate. L’opera infatti non viene toccata e non vengono prelevati campioni. “Il centro Smaart – spiega il prof. Antonio Sgamellotti, fino a qualche mese fa presidente dello Smaart (oggi il suo posto è ricoperto dal prof. Bruno Brunetti), accademico dei Lincei, fondatore del Molab – è stato creato nel 2001 dal ministero dell’Università e della ricerca scientifica, su iniziativa del prof. Mario Torelli, archeologo, e mia, a seguito dell’adesione ad un bando europeo per l’istituzione di un centro di eccellenza interdisciplinare che promuovesse la collaborazione tra le scienze chimico-fisiche e quelle umanistiche. Il suo compito è anche quello di coordinare i diversi progetti internazionali, a cui afferiscono diverse istituzioni europee, tra cui musei, istituti di ricerca, conservazione e restauro. Nell’ambito di tale attività di ricerca è nato il Molab, tra i cui coordinatori c’è la prof.ssa Costanza Miliani, ricercatrice del Cnr”. Attraverso l’uso di strumenti quali spettometri, che misurano l’interazione tra le diverse radiazioni e la materia che viene colpita, fluorimetri (ultravioletti e raggi X), microscopi, risonanza magnetica ed altri, “si ottengono informazioni sia sul tipo di pigmento usato per un determinato colore, – prosegue – come il tipo di legante usato, le varie stratificazioni, gli eventuali interventi successivi, rilevazione di eventuali disegni preparatori o microsollevamenti. Informazioni utili ai fini di eventuali restauri, rimozione di inquinanti o semplicemente come metodo preventivo nella conservazione dell’opera”. A settembre si sono concluse le indagini in situ su 13 dipinti e 4 disegni di Picasso del 1946 esposti nell’omonimo museo di Antibes. Il museo possiede una collezione unica dell’artista: “Lo scopo – spiega Sgamelloti – era quello di studiare la tecnica utilizzata dal pittore. A causa dell’indisponibilità di materiali tradizionali, come colori ad olio e tele, dovuta al periodo post-bellico, Picasso aveva utilizzato dei colori per uso edile e navale”. La prossima missione interesserà i dipinti di Van Gogh esposti al Kroller Muller Museum di Otterlo, dove c’è la più grande collezione dell’artista. Il Molab ha però condotto molte altre indagini non invasive facendo luce su come dipingevano artisti come Raffaello (Pala Baglioni), Leonardo (Vergine delle Rocce), Cezanne, Michelangelo, Donatello, Perugino. Così come particolare attenzione è stata dedicata allo studio della tecnica del lustro, tramite l’esame di opere di Mastro Giorgio, o a quella su antichi manoscritti messicani preispanici: al mondo ne sono rimasti una quindicina in tutto, di cui uno in Italia, a Bologna. Su quest’ultimo sono state compiute osservazioni per capire quali tipi di colori sono stati utilizzati e la tecnica adottata.
Il laboratorio è mobile
Università Perugia. Il Molab consente di studiare le opere d’arte in modo analitico, senza spostarle da dove si trovano
AUTORE:
Manuela Acito