L’evangelizzazione è frutto dell’esperienza interiore dei credenti che hanno vissuto l’incontro con Cristo e ne sono talmente conquistati da sentire il bisogno di comunicarlo a tutti (cf 1Gv 1,1-4). Essere discepolo significa avere la disposizione permanente di portare agli altri l’amore di Gesù, e questo avviene in qualsiasi luogo, in famiglia, al lavoro, sulla piazza, lungo la strada.
Il vero discepolo diventa naturalmente l’eco delle parole del suo Maestro, il ricordo dei suoi gesti, l’imitatore del suo stile, il riflesso della sua vita. Il testimone cristiano è colui che vive ogni esperienza alla maniera di Gesù; con lui ritrovato nel Vangelo, nell’eucaristia, nei fratelli; per lui fa il bene alla gente che incontra; in lui lavora, fatica, soffre, ama. L’annuncio credibile del Vangelo deve assumere, oggi più che mai, la forma della testimonianza, che permette di rendere conto della speranza che è in noi a quanti, vedendoci e ascoltandoci, ce ne chiedono – anche indirettamente – la ragione (cf 1Pt 3,15). Trasmettere la propria esperienza di fede attraverso l’indispensabile contatto personale è il modo più fecondo di consegnare il Vangelo all’altro. E Papa Francesco ripete che “la testimonianza è l’inizio di una evangelizzazione che tocca il cuore e lo trasforma. Le parole senza testimonianza non vanno, non servono.
La testimonianza è quella che porta e dà validità alla parola”. Le nostre Chiese sono chiamate oggi a custodire un ricco patrimonio di fede e di cultura cristiana e a vivere la capacità di adattamento ai tempi, in preda ad un rapidissimo cambiamento culturale, sociale e di costume. Una tale situazione si presenta come “tempo di grazia” che interpella la nostra coscienza di discepoli e ci invita a crescere nella gioia del Vangelo accolto, vissuto e testimoniato. Non possiamo non lasciarci provocare dalla ricerca e dalla realizzazione di una presenza più adeguata. È necessario che la missione dilati i suoi confini e raggiunga la gente là dove abitualmente vive e opera. Il territorio rimane un elemento essenziale per definire l’identità della persona e della famiglia, ma ormai non può più essere il riferimento unico o decisivo.
La comunità cristiana è dunque chiamata ad “abitarlo” in modo diverso, tenendo conto dei mutamenti in atto, della maggiore facilità negli spostamenti, delle domande diversificate che oggi le sono rivolte. In un contesto come l’attuale, l’appartenenza ad una comunità, a un gruppo, non è più ritagliata sulla base del luogo di nascita o di confini territoriali, ma su stili di vita che hanno al centro la relazione cercata e riconosciuta e la scelta dei valori. Questo presuppone un autentico cambiamento di prospettiva. Si tratta di riconoscere che la missione della Chiesa non si limita ad assicurare la vita sacramentale della comunità cristiana. Se si parte dalle comunità esistenti e dalle loro domande specifiche, la questione del numero e dell’attività dei preti è predominante. Se il primo orizzonte è invece come assumere la missione affidata da Cristo alla sua Chiesa, quella cioè di annunciare la Buona Novella a tutte le genti, la questione è innanzitutto chi potrà annunciare questa Buona Novella.
Tutto ciò riposa su una convinzione e su un metodo. La convinzione è che la vita di una comunità cristiana richiede – per essere autentica – un lavoro di riflessione e di discernimento sulla realtà, gli obiettivi, i mezzi impiegati. Si tratta di un vero lavoro che domanda tempo, riflessione, decisioni e scelte. Il metodo deve insegnare a poco a poco alle comunità a individuare degli obiettivi precisi e a decidere quali mezzi impiegare per raggiungerli, rinnovando la convinzione che il motore principale e il principale dinamismo dell’azione ecclesiale è Dio stesso. Ma Dio vuole avere bisogno degli uomini. Non possiamo perciò accontentarci di contare sui “professionisti” della missione (sacerdoti, religiosi e laici impegnati); dobbiamo chiamare tutto il popolo dei battezzati a prendere parte alla missione della Chiesa.