Dopo la “A” di Albania, la “B” di Bosnia: l’alfabeto del dialogo e della pace di Papa Francesco si arricchisce della tappa di Sarajevo.
Undici ore di visita nei Balcani e cinque discorsi per incoraggiare la minoranza cattolica locale, per ribadire la necessità di praticare la pace e la giustizia, e l’urgenza di promuovere la riconciliazione e il dialogo tra le religioni.
Ma se in Albania Francesco si è misurato con una realtà più omogenea (le diverse confessioni condividono infatti la stessa appartenenza etnica e hanno conosciuto la medesima persecuzione comunista), in Bosnia la situazione è diametralmente opposta.
La guerra del 1992-1995 è stata di fatto “congelata” dagli accordi di Dayton del 1995, che hanno sancito la divisione del Paese su base etnica e religiosa, rallentandone così però lo sviluppo, la crescita sociale ed economica, e soprattutto la riconciliazione.
Tante ferite ancora aperte che hanno trasformato Sarajevo, che ha perso la sua immagine da cartolina con la sinagoga, moschea e cattedrale vicine. Sulle rive del fiume Miljacka le divisioni si sentono forti, e il Papa non ha esitato a rilanciare in questa sua personale partita sul tavolo dell’incontro e della riconciliazione.
Venuto come “pellegrino di pace e di dialogo”, Francesco si è detto “lieto di vedere i progressi compiuti” nel dopo-guerra, “però è importante non accontentarsi di quanto realizzato, e cercare di compiere passi importanti per rinsaldare la fiducia e accrescere la mutua conoscenza e stima”. Un processo che deve coinvolgere la comunità internazionale, Ue in testa.
Sotto il gigantesco Cristo ligneo, posto sull’altare dello stadio Kosevo davanti a 65 mila persone, Francesco ha ripetuto le parole che furono di Giovanni Paolo II nella sua visita in Bosnia del 1997, con tutta la loro triste attualità. Nel mondo è in corso – ha ribadito – “una sorta di Terza guerra mondiale combattuta ‘a pezzi’. C’è chi questo clima vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente, in particolare coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi”.
Ecco allora il mandato, tratto dalle Beatitudini: “Beati gli operatori di pace”. Ma con una precisazione: non limitarsi a essere “predicatori di pace”. “Tutti sono capaci di proclamarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera”. Occorre invece essere “ operatori di pace, cioè coloro che la fanno. Fare la pace è un lavoro artigianale” che “richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia, giustizia”. E la vera giustizia “è fare a quella persona, a quel popolo, ciò che vorrei fosse fatto a me, al mio popolo”.
L’esatto opposto di ciò che è accaduto in Bosnia, come hanno testimoniato tre consacrati all’incontro con il clero e i religiosi in cattedrale. Picchiati, torturati, ridotti in fin di vita, massacrati per il loro abito e la loro fede.
Un racconto dettagliato di sofferenze che ha colpito molto il Pontefice il quale, a braccio, ha reagito: “Questa è la memoria del vostro popolo, e un popolo che dimentica la sua memoria non ha futuro. Questa è la memoria dei vostri padri e madri nella fede. Oggi hanno parlato in tre, ma in tanti hanno sofferto come loro. Non avete diritto a dimenticare la vostra storia; non per vendicarvi, ma per fare pace; non per guardare le cose in maniera strana, ma per amare come loro”.
In questo percorso di riconciliazione le religioni hanno un ruolo importante, rivendicato da Bergoglio, che coinvolge non solo i leader ma tutti i credenti.
“Il dialogo interreligioso – ha detto – è una scuola di umanità e un fattore di unità che aiuta a costruire una società fondata sulla tolleranza e il mutuo rispetto”. Però “non può limitarsi solo a pochi, ai soli responsabili delle comunità religiose, ma dovrebbe estendersi a tutti i credenti, coinvolgendo le diverse sfere della società civile. Siamo consapevoli che c’è ancora tanta strada da percorrere. Non lasciamoci però scoraggiare dalle difficoltà, e continuiamo con perseveranza nel cammino del perdono e della riconciliazione”.
Un invito ripetuto ancora nell’ultimo incontro, con i giovani, “la prima generazione del dopoguerra, i fiori di una primavera che vuol andare avanti e non tornare alla distruzione e alle cose che ci rendono nemici. Lavorate per la pace tutti insieme – ha detto Francesco prima di salire sull’aereo che lo riportava a Roma. – Che questo sia un Paese di pace. La pace si costruisce insieme, musulmani, ebrei, ortodossi e cattolici. Tutti siamo fratelli, tutti adoriamo un unico Dio”.