Può una partita di calcio – anche se destinata a entrare nella storia di quello sport – restituire serenità a un mondo angosciato dalle guerre, dalle carestie, dalle malattie, dai regimi dittatoriali? Evidentemente no. Non credo che in Ucraina fossero in molti ad avere la possibilità e la voglia di guardare in tv quella partita. Come non l’avevano i profughi ammassati nei lager della Libia, o quelli alla vana ricerca di un tetto per la notte come quel giovane morto di freddo a Bolzano la settimana scorsa.
Poi, in questi giorni, se vogliamo trovare motivi di speranza, dovremmo cercarli innanzi tutto nella luce del Natale e nel messaggio che essa porta: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce” (Isaia 9,1). Detto questo, però, lasciatemi dire che – con tutti i limiti e le riserve del caso – la finale del 18 dicembre ha avuto la forza di tenere insieme, pacificamente e gioiosamente, un numero enorme di persone in ogni angolo del globo. Solo in Italia si stima che l’abbiano vista, sulla Rai, tredici milioni, senza contare quelli che hanno utilizzato altri media.
In Francia, e si capisce, si stimano fino trenta milioni. Poi naturalmente in Argentina e in tutta l’America del Sud, ma anche in Asia, in Africa, dappertutto. E ci piace pensare che queste centinaia di milioni di spettatori abbiano sentito, più o meno consapevolmente, che è infinitamente meglio gareggiare lealmente sul campo di gioco e applaudire dalle gradinate (comprese quelle virtuali) che farsi guerra con i missili e le bombe.
Che l’abbraccio finale dei due supercampioni rivali è meglio che le conferenze stampa dei vari Putin, Biden e Xi, grondanti minacce. Che ci si può esaltare per una magica prodezza di Messi o di Mbappé (come ieri per quelle di Maradona o di Pelé) anche se si tifa per la squadra avversaria. Che si può essere amareggiati perché la nostra squadra è stata eliminata, ma intanto sperare in un riscatto futuro. Post scriptum: non si sa quanti spettatori ci siano stati in Vaticano, ma su uno almeno si può scommettere.