Nella festa della Trasfigurazione di 35 anni fa, il 6 agosto, moriva Papa Paolo VI, uno dei grandi Pontefici del passato secolo (se mai ce ne furono di piccoli!) ma anche uno dei più incompresi, quasi schiacciato dalla grandezza dei suoi predecessori, come da quella dei suoi successori. È stato il Papa – fatta eccezione forse soltanto per Pio XII – che più d’ogni altro si sentì consapevole della sua dignità e della conseguente solitudine ad essa legata, come quella di “una statua piantata in cima ad una guglia”. Il suo Pontificato, pur non breve, fu costellato di non poche difficoltà e dolori, come la morte dell’amico Aldo Moro, trucidato dalle Brigate rosse pochi giorni prima della sua stessa morte.
Giovanni Battista Montini accettò sempre in tutto la volontà del suo Signore, anche quando, per opera dei cardinali in Conclave, si vide elevare al soglio pontificio come il successore dell’amato “Papa buono”, a sua volta chiamato a regnare dopo il grande Pastor angelicus. Fu l’ultimo Papa ad essere incoronato; insofferente com’era di ogni fastosità barocca, fece disegnare il suo triregno sullo stile di quello di Bonifacio VIII: pareva l’ogiva di un missile! Più di tutti i suoi predecessori, ha accettato la sfida della modernità; con grande coraggio proseguì e portò a compimento la grande opera del Concilio, guidando poi la Chiesa, dopo la sua conclusione, con mano dolce ma ferma, salvandola così dai molti che, presa la bandiera del rinnovamento, volevano trascinarla a modo loro, quasi snaturandola.
Accolse le richieste di molti sacerdoti di essere – come si diceva allora – “ridotti allo stato laicale” senza battere ciglio, soffrendo nel suo cuore di padre, ma rispettando la volontà di ognuno.
Soffrì in silenzio l’incomprensione dei suoi, (perdonando le tante offese e gli appellativi poco caritatevoli, come quello di “Paolo mesto” appiccicatogli solo perché, si diceva, non ridesse mai): dei conservatori, che avrebbero voluto un Concilio sostanzialmente fedele alla tradizione; dei progressisti, alcuni di loro suoi stessi elettori, che avrebbero voluto vivere in una sorta di Concilio permanente.
Negli anni che seguirono, dalla conclusione del Concilio alla sua morte, nel 1978, seppe mantenere sempre al centro la barra della Chiesa; e questo lo costrinse, con le lacrime agli occhi, a dover potare quei rami, come mons. Lefebvre o l’abate Franzoni, che nonostante i continui richiami, si erano decisi a cadere dal grande albero della Chiesa.
Uomo pio e devoto, ma anche abile organizzatore, con le sue riforme diede alla Chiesa un apparato più adatto alle esigenze dei tempi. Nel 1970, festeggiando a modo suo l’anniversario dell’Unità d’Italia, licenziò i Corpi armati pontifici e il patriziato romano. Abolì con un tratto di penna l’antica Corte pontificia che i secoli si erano incaricati di arricchire, facendo una strage di titoli e relative funzioni. Scomparve così un vocabolario di titoli solenne e pittoresco, e non ci furono più: cardinali palatini, prelati di fiocchetto, cursori e scalchi segreti, il latore delle brevi ai principi, ecc. Paolo VI mandò in pensione anche l’ecclesiastico del cuscino, in compagnia del custode dei triregni. Molti gridarono allo scandalo e pochi intesero la sua reale intenzione: che la maestà della Cattedra di Pietro tornasse a essere di natura spirituale. Il Papa doveva volare sulle ali della pace, e non sopra le alabarde degli armigeri.
Anche l’organigramma ecclesiastico venne ammodernato e reso più adatto al tempo, eliminando funzioni poco più che di parata. Prima delle sue riforme infatti, gli incarichi di Curia erano illuminati da una specie di luce di eternità: si veniva rimossi solo per essere promossi, così si lasciavano al loro posto persone stanche, o magari ammalate, solo perché sostituirle poteva sembrare un fare torto, quasi che efficienza e carità fossero nemiche.
Quanto sono attuali oggi le sue encicliche, una fra tutte la Humanae vitae. Dal suo magistero hanno attinto abbondantemente i suoi tre immediati successori che, tra l’altro, a lui devono la berretta cardinalizia che li ha portati poi in Conclave.
Una sintesi del personaggio, ammesso che sia possibile, l’ho trovata in una frase emblematica, una definizione postuma su don Primo Mazzolari, che si deve proprio a Paolo VI: “Lui aveva il passo troppo lungo, e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui, e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti”.
(Clicca qui per leggere l’altro ricordo di Paolo VI del n. 26)