DOMENICA XVIII DEL TEMPO ORDINARIO
La vita non si compra con i soldi
Siamo in pieno periodo estivo, quando impazza la voglia di godersi un legittimo periodo di distensione. Per molti è un tempo di vacanza anche dallo spirito, caratterizzato dalla ricerca di soddisfazioni materiali e dalla fiera delle vanità. Dio può aspettare o forse togliersi dai piedi. Il suo posto è preso dai progetti umani di godimento e dal denaro che serve per divertirsi. La liturgia oggi invita i più distratti a riflettere sul valore della vita, che abbiamo in amministrazione e non in proprietà esclusiva. Non è ozioso ripensare alla cose che veramente valgono e mettere a frutto il dono che Dio ci ha fatto.
Il brano del Vangelo che leggiamo è esclusivo di Luca. Esso comprende un episodio iniziale e un commento sotto forma di parabola. Si apre con la richiesta che un anonimo ascoltatore presenta a Gesù. Essa riguarda la divisione di un’eredità. I rabbini ebrei, oltre che maestri, erano spesso anche giudici di pace chiamati a risolvere problemi legali di vita quotidiana. Qui il problema è quello di due fratelli che litigano nel dividersi l’eredità paterna. Per la legge del maggiorascato, al primogenito spettavano i due terzi dei beni di famiglia; il figlio minore si doveva contentare di un terzo. Il caso prospettato a Gesù è quello del fratello minore che rivendica la sua parte di fronte alla prepotenza del fratello maggiore. Gesù rifiuta di immischiarsi in queste beghe fastidiose, perché non è un rabbino qualsiasi. Però non rinuncia a sfruttare l’occasione per impartire un duplice insegnamento: innanzitutto egli insegna che Dio non è disponibile per azioni di comodo personali. Sa bene che l’uomo tende a tirare Dio dalla sua parte, magari strumentalizzando la sua parola o distorcendo la sua immagine.
Il motto “Dio è con noi” ha finito per coprire tante ingiustizie e tante guerre nella storia. Dio è dalla parte di tutti, perché tutti sono suoi figli; rifiuta di mettersi contro qualcuno e di coprire interessi materiali torbidi. Smettiamola di monopolizzare Dio, come detentori assoluti della sua verità e del suo giudizio. Piuttosto mettiamoci tutti in umile ascolto della sua parola di pace, di amore, di fratellanza. Non usiamo la sua parola a pretesto per imporre o rivendicare i nostri presunti diritti troppo interessati ed egoisti. Il secondo insegnamento Gesù ce lo comunica con una parabola, cioè con un racconto verosimile preso anche dalla cronaca del suo tempo. Essa dice che posto devono avere i beni nella vita dell’uomo e del cristiano in particolare. La parabola è introdotta da un’esortazione rivolta a tutti: “Guardate di tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”.
La vita di cui parla Gesù non è soltanto quella temporale, ma anche quella eterna. Il valore e la durata della vita temporale non si misura sui beni che si possiedono e questi non servono per comprarsi la via eterna. Come dimostrazione di ciò, Gesù racconta una parabola che ha tutta l’aria di essere un fatto di cronaca. Un ricco proprietario terriero ha avuto un buon raccolto e pensa di ampliare i suoi magazzini per diventare sempre più ricco e mettere al sicuro il suo avvenire per una vita comoda e serena. Fin qui nulla di male. Gesù non rimprovera la previdenza, ma la cupidigia. Costruirsi onestamente un avvenire è aspirazione legittima, specie là dove non esiste la pensione statale o le assicurazioni di vecchiaia, o ambedue sono inadeguate a coprire le eventuali spese. Il veleno si nasconde nel monologo che egli intesse con se stesso, dove non c’è altro scopo di vita se non mangiare, bere e godersi un’esistenza agiata. Un ideale esclusivamente edonistico e materialistico.
Non c’è nessuna aspirazione che superi il livello dello stomaco, e attinga al cuore nella ricerca di valori più alti. Tutto poi è programmato con assoluta sicurezza, come se il futuro dipendesse da lui solo e gli appartenesse di diritto. Non c’è nessuna intenzione di fare del bene e dare un aiuto a chi è povero. La sua proprietà non ha nessuna funzione sociale. Tutto è suo, esclusivamente ed egoisticamente suo. Esiste lui solo, e se sta bene, lui stanno bene tutti. È una visone della vita chiusa e misera, senza orizzonte di apertura al prossimo, tinta solo di avarizia e di egoismo. È un uomo che fa tanta pena al Signore. Tanto più che non ha messo affatto in conto la precarietà della sua esistenza. Non ha preventivato la morte, unica cosa assolutamente certa nel futuro di ciascuno.
Gesù lo chiama “insensato”, scriteriato, privo di senno, per esprimere tutto il suo compatimento. La letteratura sapienziale ebraica aveva più volte ammonito lo stolto a tener conto della morte come cosa seria e sicura (Sl 39,5-7; Qo 9,7-9). Nelle conclusione della parabola, Gesù sembra citare quasi alla lettera un testo del libro del Siracide: “C’è chi è ricco a forza di attenzione e risparmio. Ed ecco la parte della sua ricompensa: mentre dice:’Ho trovato riposo, ora mi godrò i miei beni’, non sa quanto tempo ancora vivrà. Lascerà tutto ad altri e morirà” (Sir 11,18s). Più che davanti ad un giudizio di condanna, la parabola pone l’uomo davanti al fatto improvviso e inevitabile. Proprio questa variabile può far fallire ogni progetto. È un buon deterrente contro l’avarizia e l’accumulo. Ora Gesù si rivolge a tutti i suoi ascoltatori per ammonire: “Così è di chiunque accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”. Gesù non vuole qui insegnare a morire, ma a vivere, dando alla vita una dimensione aperta a Dio e al prossimo. Una vita vissuta non nell’egoismo, ma nell’amore; non nell’egoismo, ma nella carità. Solo una vita così non finirà, perché si aprirà alla vita eterna con Dio. E questa è la vera assicurazione cristiana sulla vita.
DOMENICA XIX DEL TEMPO ORDINARIO
Rimboccatevi le maniche come servi laboriosi
“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate'” (Lc 12,35-40).
Il brano evangelico fa parte di una serie di istruzioni che Gesù comunica al suo “piccolo gregge” di discepoli inviati nel mondo. Essi non devono aver paura di un’impresa che sarà sempre più grande di loro. Saranno pochi, piccoli, poveri, disarmati, umili, senza mezzi umani. Anche perché si devono privare di tutto ciò che hanno (beni e denaro), per non essere appesantiti e condizionati da interessi umani. Come pecorelle del piccolo gregge di Cristo hanno come Pastore Dio che si prende cura di loro; non sono mandati allo sbaraglio o lasciati a se stessi. Gesù rimanda al Salmo 23 dove si dice: “il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, non temerò alcun male”. Dio Padre, che li ama, li ha riforniti della ricchezza e della forza del “Regno” cioè della sua sovranità salvifica a favore degli uomini.
È una cosa talmente bella e preziosa che, se uno ci ha messo il cuore, non se ne distacca più, tutto il resto non conta (12,33-34). Vale spenderci tutte le proprie capacità e le proprie forze, in un impegno instancabile. A questi concetti si aggancia il piccolo quadro descritto dalla parabola breve e folgorante, ma ricca di riferimenti simbolici, creata dalla fantasia di Gesù. Essa ci immerge nelle situazione di una casa signorile, dove i servi sono al servizio del loro signore. Questi è momentaneamente assente perché invitato ad una cena di nozze di amici o parenti. Ha distribuito gli incarichi e le mansioni della casa alla sua servitù, che si è subito messa al lavoro dietro suo comando. Non vuole che nel frattempo i servi se ne stiano con le mani in mano, ma che lo attendano al lavoro. Perciò li esorta: “siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese”.
In Palestina al tempo di Gesù, sia gli uomini che le donne indossavano vesti lunghe fino alle caviglie. Per potersi muovere più speditamente, la veste veniva sollevata sino alle ginocchia e legata ai fianchi da una cintura o da una corda. Questa era ordinariamente la tenuta di chi si metteva al lavoro e di chi iniziava un viaggio. Chi lavorava in casa a sbrigare le faccende domestiche o al proprio lavoro artigianale, aveva bisogno di accendere almeno una lampada di terracotta posta su un supporto, perché le abitazioni non avevano finestre sulla strada (Lc 8,16). Questo valeva tanto più per chi doveva prolungava il proprio lavoro nella notte, come nel nostro caso. Viene subito in mente la donna forte e laboriosa, descritta dal libro dei Proverbi, che “cinge i fianchi con energia e spiega la forza delle sue braccia. È soddisfatta perché il suo lavoro rende bene, perciò neppure la notte si spegne la sua lucerna”(Pr 31,17s).
Gesù utilizza queste immagini rapide, conosciute dai discepoli ce vivono in questo ambiente, per dire che la loro vita non deve essere un’attesa oziosa del ritorno del Signore, ma una veglia attiva e laboriosa. L’esortazione corrisponde al nostro invito a rimboccarsi le maniche e darsi da fare attivamente nella famiglia di Dio. Ogni vero credente deve sentirsi impegnato nella chiesa per la diffusione del regno di Dio. Non c’è posto per i pigri, gli sfaccendati, i disimpegnati. È un’idea più volte inculcata nel vangelo con altre parabole, come quella degli operai della vigna (Mt 21,1-6) o quella dei talenti (Mt 25,14-30). Più vicina alla nostra, è la parabola dello schiavo laborioso e instancabile, pronto a fare tutto quello che il padrone gli comanda, senza rivendicare un preciso orario sindacale (Lc 17,7-10). Se uno schiavo si sente obbligato a servire il suo padrone senza fare calcoli di tempo, tanto più il credente deve sentire la necessità di servire Dio senza risparmio. Non si serve Dio da salariati, ma da collaboratori volontari, che sanno dimenticare se stessi e prendere ogni giorno la propria croce dietro a Gesù, nella dedizione senza limiti per Dio e per il prossimo (Lc 9,23-26).
La vita cristiana è amoroso servizio di Dio e dei fratelli, è testimonianza di opere coerenti con la fede professata, senza mezze misure, senza soste ed evasioni. La parabola è diretta ad una comunità di discepoli in attesa della seconda venuta di Gesù. La loro è una vita proiettata verso il futuro, non rinchiusa nello stretto orizzonte terreno. L’attesa laboriosa è l’atmosfera abituale della vita del credente. Il padrone e i servi sono simbolo di Gesù e dei discepoli, la casa è la chiesa. Il Signore si è assentato momentaneamente da casa per partecipare al banchetto nuziale del cielo, cioè alla festa organizzata per lui dal Padre al momento della sua glorificazione e ascensione. Il suo ritorno è imprevedibile: non si sa mai quando termina un banchetto di nozze, è impossibile fare calcoli di tempo.
Il possibile ritorno a qualsiasi ora è scandito, da Luca, secondo il calcolo ebraico delle ore notturne distribuite in tre “vigilie” di quattro ore ciascuna: la prima andava dalle diciotto alle ventidue; la seconda dalle ventidue alla due, al primo canto del gallo; la terza dalle due alle sei, quando spuntava il giorno e iniziava la giordana lavorativa. Gesù chiama ‘eati’quei servi che egli troverà vigilanti e attivi. La beatitudine è un chiaro annuncio di felicità goduta con Dio e in Dio. Come in altre circostanze essa è legata ad una situazione di vita impegnativa nella quale il credente si trova o sceglie di trovarsi (Lc 6,20-21). Non è mai enunciata per chi non fa nulla e non si impegna. Solo a quei discepoli che vivono con Dio e per Dio Gesù garantisce la ricompensa della felicità con l’immagine del padrone di casa che “fa sedere a tavola i suoi servi vigilanti e passerà a servirli” .
Era assolutamente assurdo pensare ad un padrone che diventava servo dei suoi servi. Solo in Dio i paradossi possono diventare realtà. Gesù questo lo ha fatto una volta in modo radicale col gesto allusivo della lavanda dei piedi, che anticipava l’umiliazione della sua morte da schiavo. Lo farà ancora quando riceverà i suoi servi nella casa del padre e condividerà con loro la sua gloria. Si scambieranno allora i ruoli: il posto del padrone è ceduto ai servi, che diventeranno ospiti privilegiati e onorati, premiati per la loro fedeltà. Il commento che segue la parabola e introdotto dalla domanda di Pietro sviluppa in positivo e in negativo questo concetto. In ogni caso Gesù, più che sulla paura, preferisce far leva sull’amore, sviluppando in positivo ciò che si prestava ad una descrizione drammatica di tipo apocalittico. La venuta del Signore non è una minaccia per quelli che lo attendono con amore fattivo, ma una garanzia di felicità piena, simboleggiata da una gioiosa convivialità. A noi abituati a guardare con timore e paura l’evento finale della morte, risulta una gradevole sorpresa sentirlo descritto in modo così rassicurante.
DOMENICA XX DEL TEMPO ORDINARIO
La scelta di Cristo è scelta impegnativa in contrasto col mondo
“In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: ‘sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera’. Diceva ancora alle folle: ‘quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?'” (Lc 12,49-57)
Da tempo ci stiamo meravigliando e indignando per la discriminazione che si sta operando, in Europa e in Italia, nei confronti di chi si dichiara apertamente cristiano nella politica e nella società. La nostra cultura sta assumendo sempre più un atteggiamento laicista anticristiano, intollerante nei confronti del cristianesimo, ma tollerante e rispettosa riguardo alle altre religioni, specie quella mussulmana, forse perché si ha paura delle reazioni di forte suscettibilità da parte dei paesi e dei gruppi islamici. Questa intolleranza sta invadendo ogni ambito della vita: si tolgono i crocifissi dai luoghi pubblici, si aboliscono le tradizioni religiose, come quella del presepio o delle canzoni natalizie, per un malinteso rispetto di chi non è cristiano, mentre la minoranza non esige tanto. Si è cancellato dalla costituzione europea ogni riferimento alle radici cristiane del nostro continente.
In politica c’è una crescente intolleranza nei confronti della chiesa e del papa per i loro interventi in materia morale di bioetica e della famiglia, che vengono definiti interferenza politica indebita. Si vorrebbe ridurre la religione all’ambito del privato e si osteggia, sulla grande stampa, chi e portatore di valori e di istanze cristiane. I laici cristiani, scrittori o politici, sono messi a tacere e ignorati. Non hanno voce. La situazione del cristianesimo in Europa e in Italia è difficile e preoccupante, ma no dovrebbe sorprendere o meravigliare più di tanto alla luce del brano evangelico che abbiamo appena ascoltato. Pagine come quelle di oggi, tuttaltro che isolate, contengono un insegnamento valido per tutti i tempi della chiesa.
Gesù non ha creato illusioni pericolose ai suoi seguaci di tutti i tempi e di tutte le società. Ha voluto dare una descrizione realistica anticipata e ammonitrice per la storia della sua chiesa, riassunta nel detto: “un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Tutto questo vi faranno a causa del mio nome” (Gv 15,20s). In questa atmosfera di rifiuto e di difficile accoglienza si colloca il nostro brano evangelico, che contiene un doppio insegnamento: uno per i discepoli, l’altro per tutti. La parola sono talmente originali e forti che nessuno avrebbe potuto inventarle. Ai discepoli Gesù espone l’importanza e i rischi della loro missione. Egli è venuto a portare “il fuoco” sulla terra, il fuoco dello Spirito di Pentecoste (3,16) che darà forza dirompente alla loro predicazione, provocando un incendio di fervore religioso.
La fede e la spinta missionaria sono come un fuoco acceso e incontenibile nel cuore di un vero credente, come lo aveva descritto il profeta Geremia (Ger 20,9). Non si tratta di fanatismo religioso, ma di fervore missionario che spinge all’annuncio del vangelo. Se il cristiano non ha un po’ di questo fuoco è un credente spento e indifferente. Proprio questo fuoco missionario ha portato Gesù alla croce, che gli descrive come un “battesimo” col quale sarà battezzato (Mc 10,38). Esso è simbolo, come in tutta la tradizione apostolica, della morte, della sepoltura e della risurrezione nel duplice movimento di immersione e di risalita. Le acque della sofferenza che hanno travolto Gesù, sono la fonte di quel fuoco che egli è venuto a portare (Gv 7,37-39). Questo fuoco di fede e di fervore missionario creerà divisioni e ostilità intorno ai discepoli, come l’ha creato nella vita di Gesù. La divisione e l’opposizione attraverseranno le famiglie al loro interno, creando contrasti e ostilità perfino tra i loro membri.
La scelta del vangelo comporta intolleranza, divisioni e persecuzioni sia all’interno della famiglia che all’interno della società. Non ostante che quello di Gesù sia un vangelo di pace e di amore, crea divisione e odio perché si scontra con il male che si annida nel cuore degli uomini. La luce e le tenebre sono sempre antagoniste, si eliminano a vicenda, non possono convivere. Sono il simbolo del contrasto che nel mondo oppone la salvezza spirituale al peccato che inquina il mondo. Gesù ha inaugurato un rapporto nuovo con il Dio della pace, esso comporta l’armonia tra Dio e gli uomini e degli uomini fra di loro. Ma questo suppone l’eliminazione del peccato e del demonio tenacemente abbarbicati all’uomo e alla società da essi inquinata. Il demonio fa del tutto per opporsi al piano salvifico di Dio, all’instaurazione della sua signoria salvifica, perché questa lo esautora e lo caccia dal mondo. Da qui la sua opposizione che scatena la lotta e porta divisione perfino nelle famiglie.
Dio non trasforma il mondo con un colpo di bacchetta magica. La libertà che ha donato ad ogni uomo, suppone scelte autonome e responsabili. Il vangelo non è un’imposizione forzata che costringe, ma una proposta di libere scelta. Dio non vuole schiavi, ma amici. Dipende da ognuno la scelta tra bene e male. Naturalmente la scelta diversa crea spaccature, opposizione, separazione, odio. Ecco perché Gesù dice chiaramente e realisticamente: ‘on sono venuto a portare la pace sulla terra, ma la divisione’ Non è un’intenzione, ma una costatazione. Non si è proposto di venire a creare divisione e contrasto tra gli uomini, ma costata che ciò sta avvenendo per il rifiuto che gli uomini oppongono al suo messaggio di pace. Agli ascoltatori, in una cerchia più ampia di quella dei discepoli, Gesù lancia una sfida a decidersi da che parte stare. Con le sue parole, col suo comportamento, con i suoi miracoli egli ha dimostrato in tutta evidenza che la salvezza è giunta fra gli uomini.
Egli fa appello allora al senso di discernimento della gente, perché sappia leggere i segni dei tempi nuovi che sono ormai giunti, come, la maggior parte di loro, sa leggere i segni meteorologici del bello e cattivo tempo. Discerne che tempo farà è un’operazione neutra che non comporta grandi conseguenze per la vita, ma discernere e scegliere il tempo della salvezza cambia completamente l’esistenza di ogni uomo. È una decisione che cambia il corso della vita, comporta una conversione, un cambio di mentalità e di comportamenti pratici. Questa è la sfida che Gesù lancia a ciascuno di noi oggi. E’ una sfida a mettersi in contrasto con la mentalità corrente che abbiamo descritto sopra, ha non aver paura di professare anche pubblicamente la propria fede costi quello che costi. Ma ci vuole coraggio!
DOMENICA XXI DEL TEMPO ORDINARIO
Veri e falsi cristiani
“In quel tempo, Gesù passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: ‘Signore, sono pochi quelli che si salvano?’ Rispose: ‘Forzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete.Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi'” (Lc 13,22-30).
Luca ci ricorda che Gesù è in viaggio verso Gerusalemme dove vivrà la sua ultima pasqua di morte e risurrezione per la salvezza del mondo. Intanto visita le città e i villaggio che incontra nel cammino per annunciarvi il suo vangelo. In uno di questi suoi spostamenti è avvicinato da un anonimo interlocutore, che gli domanda: “Signore sono pochi quelli che si salvano?” È tutt’altro che una domanda curiosa buttata là giusto per dire qualcosa. È l’interrogativo di un ebreo che ha sempre ritenuto che a salvarsi siano solo i giudei osservanti, una élite che disprezzava la maggioranza del popolo ignorante costituito per lo più da pubblicani e peccatori. Questi eletti pensavano di vivere in mezzo ad a una massa di dannati. La salvezza era dunque privilegio di pochi fortunati che conoscevano la Legge e cercavano di osservarla scrupolosamente, almeno in modo formale.
Gesù era u n predicatore popolare che non operava nessuna discriminazione e proponeva la salvezza del suo vangelo a tutti, specie a quelli considerati esclusi. Poteva rispondere al suo interlocutore dicendo che Dio vuole tutti salvi e da parte sua non c’è nessuna preclusione per nessuno. Ma preferisce che la domanda rivoltagli sia cambiata in un interrogativo personale, come è avvenuto altre volte: “Signore, che devo fare per avere la vita eterna?”. Difficile dire quanti sono i salvati, speriamo siano molti, anzi tutti. Ma questo dipende dall’impegno personale di ciascuno. Vuol far capire che la salvezza di Dio è offerta a tutti, ma non è in svendita. Essa ha un prezzo che ciascuno deve responsabilmente pagare con l’impegno della vita. Perciò risponde con una seria di immagini simboliche raggruppate intorno alla figura della porticina stretta che, nelle case giudaiche del tempo, metteva in comunicazione con la strada. Per entravi bisognava abbassarsi, come quando si entra oggi nella basilica della natività a Betlemme.
La casa è il regno di Dio nel quale si entra chinando il capo nell’obbedienza alla volontà divina, trasmessa dalla predicazione di Gesù. Questi non dice quanti si salveranno, ma ammonisce tutti a convertirsi al suo vangelo prima che sia troppo tardi. Rinviare le proprie decisioni senza fine potrebbe essere rischioso. Potremmo trovare la porta chiusa perché arrivati in ritardo. Il dialogo del padrone con i ritardatari, che bussano alla porticina di casa ormai chiusa, costringe tutti ad un serio esame di coscienza, perché chiarisce il pensiero di Dio. Bisogna favi attenzione perché può evitare spiacevoli sorprese e cocenti delusioni al momento del rendiconto finale. Pensarci solo al momento in cui stiamo bussando alla porta di Dio, dopo la morte, sarebbe troppo tardi.
Potremmo sentirci dire da Dio: “Non vi conosco, non so chi siete! Non ci siamo mai incontrati prima a tu per tu, non siamo mai entrati in confidenza, ci siamo ignorati”. Inutile ogni giustificazione affrettata per farsi riconoscere e accreditarsi: “Abbiamo mangiato e bevuto insieme alla mensa eucaristica, abbiamo sentito parlare di te e abbiamo ascoltato la tua parola che risuonava in chiesa o sulle piazze medianiche”. La salvezza eterna di ciascuno non è legata a condizioni esteriori di appartenenza razziale o religiosa. Dio non ci salva perchè facciamo parte di un ceto sociale nobile e privilegiato, o perché abbiamo soldi per comprarci il paradiso con qualche opera di beneficenza saltuaria. Non ci mettono al sicuro le conoscenze o le amicizie che potremmo allacciare. È un richiamo a quei credenti cristiani superficiali, che pensano di essere al sicuro perché sono stati battezzati, nutrono devozione anche fanatica per un determinato santo (S. Pio da Pietrelcina, S. Rita, S. Antonio ecc..); hanno legami di amicizia con monsignori, vescovi e cardinali; vanno in chiesa in qualche occasione solenne; ascoltano distrattamente qualche predica; fanno incoscientemente anche la comunione, mettendosi in coda con gli altri, senza essersi prima confessati, perché pensano che la confessione sia ormai una pratica superata e loro non hanno peccati da confessare; accendono qualche candela di devozione; biascicano distrattamente qualche preghiera imparata da bambini.
Questi cristiani all’acqua di rose, “a Dio spiacenti e a li nimici sui” direbbe Dante, ignorano che la porta per entrare nella vita eterna è stretta e bassa, richiede ricerca sincera di fede sforzo e impegno (‘forzatevi di entrare’ costanti, sacrifici spirituali di rinuncia al male, di ricerca del bene vero che è l’unione con Dio e l’amore per i fratelli, esercizio di carità costante e disinteressata verso i più bisognosi e sfortunati, educazione del cuore e della mente per conoscere e assimilare sempre più la parola di Dio. L’indifferenza e la neutralità religiosa equivale al paganesimo pratico senza impegno morale e merita da parte di Dio la terribile sentenza di rifiuto: “allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità”.
È ciò che sta accadendo nella nostra società laicista ormai divenuta quasi pagana nel modo di pensare e di agire, che impone una cultura senza spazio per Dio, violenta e crudele con i più deboli, materialista nei valori e nei comportamenti. Fa pensare la sentenza profetica finale di Gesù rivolta agli ebrei del suo tempo, ma valida anche per noi oggi: “Vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori”. Rimanda al ricordo delle chiese fiorenti dei primi secoli cristiani nel nord dell’Africa, in Turchia e in tutto il medio oriente, spazzate via dall’islamismo e oggi ridotte a poche migliaia di cristiani. Comunità fiorenti come Antiochia di Siria, Costantinopoli, Alessandria oggi sono una larva di se stesse, senza più alcun rilievo sociale. Questo insegna che nessuno cristiano e nessuna chiesa cristiana possono vivere di rendita. O si rinnovano e si impegnano, o altrimenti Dio si sposterà altrove, presso altre latitudini, verso altri popoli: “Verranno da Oriente e da Occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Alcuni tra i gli ultimi saranno primi a alcuni tra i primi saranno ultimi”. Ciò potrebbe accadere anche a noi. È un monito salutare che deve servire a svegliarci dal sonno.